Il nido dell'Anatra

"I censori tendono a fare quello che soltanto gli psicotici fanno: confondere l'illusione con la realtà". (David Cronenberg)

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DARK ANGEL: PERFETTA [Seconda Parte]


Aggiornato : 11/05/2013

[La Prima Parte QUI]

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CAPITOLO… (Un po’ di tempo prima)

La pioggia sembrava non finire mai su Seattle, ormai erano sette giorni e otto notti, di acqua ininterrotta. Le strade di Terminal City cominciarono ad accusare il colpo. Dieci anni di mancata manutenzione resero quei vicoli appestati una fogna a cielo aperto. I piani bassi e molti dei sotterranei si allagarono e altrettanti abitanti dovettero trovare altri alloggi, forse momentanei, ma più probabilmente definitivi.

Dalla finestra Max osservava con sgomento lo sfratto forzato di molti suoi fratelli e sorelle da parte di madre natura.

«A questo non puoi porre rimedio, lo sai…» Logan cercò di giustificare la situazione, ma a Max non importava, era sempre e comunque responsabile per quella gente.

Prese la sua decisione, e anche se il suo fisico e la sua mente erano ancora scombussolati dagli eventi delle ultime settimane agguantò velocemente il giubbotto di pelle e si avviò alla porta con passo deciso senza dire una parola.

«Max!»

La ragazza esitò un istante, poi voltò lo sguardo verso Logan, ancora vicino alla grande finestra.

«Abbiamo una telefonata da fare, se non ricordo male» le rammentò Logan allargando leggermente le braccia.

«Puoi chiamare tu, laggiù hanno bisogno di me» rispose Max decisa a scendere in strada.

«Tutti hanno bisogno di te, loro…» ed indicò con lo sguardo la strada sottostante, «…e anche loro.» e stavolta indicò oltre i confini di Terminal City, «Abbiamo tutti bisogno di te. Adesso ti togli quel giubbotto, ti siedi qui e prendi quel dannato telefono» la redarguì, indicando con decisione il tavolo sul quale era appoggiato l’apparecchio.

Max lo guardò quasi incredula, con che coraggio si rivolgeva così a lei? Ma era sexy quando faceva il duro. Oh sì, molto sexy.

«E poi…», proseguì Logan, guardando fuori dalla finestra in direzione della strada sottostante «…Siete ben organizzati, c’è già un sacco di gente che si sta dando da fare.»

Max si limitò a fissare Logan scura in volto e con almeno un trilione di pensieri che le passavano veloci nella mente come neutrini sparati in un acceleratore di particelle. Uno in particolare le volteggiava  nella testa e riguardava l’esoscheletro di Logan, per quale motivo lo stava indossando anche in quel momento?

Senza distogliere gli occhi dal volto di Logan, Max prese il telefono, alzò la cornetta sverniciata e portandosela all’orecchio con un movimento meccanico rivolse lo sguardo verso il proprio polso, l’unico tatuaggio a non essere scomparso. Il silenzio assordante di quel momento lo avrebbero ricordato entrambi per molto tempo. Il suono dei toni della tastiera mentre veniva composto il numero di telefono spezzò il silenzio.

Il momento di attesa per la risposta sembrò non finire mai, quando improvvisamente, dall’altro capo del telefono una voce rispose:

«Max… ti sei decisa a chiamare».

Max si pietrificò, riconobbe la voce.

«Lydecker? Ma come?…», l’espressione di Max si fece incredula e volgendo lo sguardo verso Logan ebbe conferma di non essere la sola. Mise il telefono in viva voce.

«Storia lunga. Cercarono di uccidermi un paio di anni fa, dopo che mi avvicinai un po’ troppo a scoprire cose sulla setta. Feci appena in tempo ad informare Logan su alcune stranezze, diciamo così, di carattere storico.» Max rivolse ancora una volta lo sguardo su Logan, il quale confermò con un cenno della testa quanto Lydecker aveva appena comunicato.

«Tutti mi hanno creduto morto, e la cosa si è rivolta a mio favore ovviamente, mi sono mosso con maggior libertà. Il piano era quello di trovare il fondatore di Manticore…»

«Lydecker, sono Logan Cale…»

«Logan, felice di risentirti, figliolo»

«Sì, più o meno la cosa è reciproca… sarò breve e conciso: che diavolo sta succedendo?» la domanda di Logan lasciò trasparire della sana impazienza ed irritazione. Max lo guardò incredula, Solo-Occhi che perdeva le staffe, tesoro, abbiamo aspettato cinquemila anni per vedere la fine di questa storia, che vuoi che sia qualche minuto in più?, pensò.

«Mettetevi comodi, la storia diventa interessante e direi quasi incredibile… per come la conosciamo ufficialmente perlomeno»

«Ti ascoltiamo, ma prima una domanda e voglio una risposta senza giri di parole: hai trovato Sandeman?»

«Ovviamente, da chi credi arrivino queste informazioni? Ma arriverò anche a lui, a suo tempo»

«Vai avanti…» lo invitò a proseguire, Logan.

«I miti e le leggende, soprattutto in ambito religioso hanno sempre avuto un fondo di verità, e questo caso non fa eccezione.

«Le tre religioni principali, hanno in comune una cosa: l’antico testamento. Nel libro della Genesi si fa riferimento a quello che tutti conoscono come”Diluvio Universale”… »

«Aspetta un attimo…», lo interruppe Logan incredulo, «Stiamo sul serio parlando di questo?»

«Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”», la citazione da Amleto di Lydecker, era molto pertinente, ne convenne il lato umanistico di Logan.

Donald Lydecker proseguì: «Si sa che anche gli aztechi parlano di un cataclisma di dimensioni planetarie, così come i babilonesi e altre culture. Qualcosa millenni fa sconvolse il pianeta, anzi, sconvolse il genere umano.»

«E quale ne fu la causa?» domandò incuriosita Max.

«La causa di tutto ciò fu C/2002 S5 DEB», fu la risposta di Lydecker.

Max non capì di cosa stava parlando l’ex colonnello di Manticore, cercò conferme sul volto di Logan, il quale fece cenno con un dito alla ragazza di attendere un attimo.

«Stai parlando della cometa?»

«Sono felice che tu sia attento figliolo, e che tu sia informato… non posso dire altrettanto di Max».

«Fammi una nota sul registro» ribatté la ragazza col solito tono sarcastico, «Volete informare anche me?»

«C/2002 S5 DEB è una cometa, il cui passaggio è atteso tra qualche settimana, gli astrofisici sono particolarmente interessati a questo particolare corpo celeste perché passa vicino alla terra una volta ogni cinquemila anni più o meno», e mentre informava di ciò Max, Logan, diventava sempre più preoccupato.

«Esattamente, e sappiamo tutti ciò che le comete possono fare: nulla, portare la vita o portare la morte».

«Bene, questa ovviamente porta la morte. Grandioso, e io come dovrei fare? Non so se lo avete notato, ma posso essere più veloce, più reattiva, più forte di qualsiasi essere umano… ma come dovrei fare secondo voi per fermare una cometa?».

Calò il silenzio, purtroppo non era una domanda retorica, era una domanda in attesa di una risposta, possibilmente concreta.

CAPITOLO DUE OTTO

Odiava le fogne, le odiava perché erano fredde e umide. Erano tutto ciò per cui non era fatto. Ogni soldato di Manticore era talmente specializzato in qualcosa, che inevitabilmente il suo opposto risultava essergli fatale in alcune circostanze. Ognuno dei fuggitivi di Terminal City aveva la propria kryptonite. La sua era il freddo e l’umido. Ma Mole aveva anche qualcosa d’altro, un fenomenale sistema di mimetizzazione derivante dai camaleonti. E fu proprio grazie a quello che riuscì a fuggire dal container, mentre Max decideva si sacrificarsi per lui e tutti i fratelli.

La parte più difficile fu spogliarsi. Perché la mimetizzazione potesse funzionare doveva essere completamente nudo. Il freddo pungente dell’acqua a contatto del suo corpo lo aveva rallentato del 60%, praticamente un normale essere umano. Per alcuni momenti persino la vista gli si annebbiò. Ma resistette, lo avrebbe fatto, se una ragazzina era stata in grado di compiere un gesto simile, chi era lui per non sopportare un po’ di freddo.

La strada verso Terminal City era lunga svariate miglia. Guardò in direzione del lungo tunnel fognario, fece una smorfia, la cosa che gli mancava di più era il suo sigaro.  Si rimise in cammino, con un pensiero rivolto a chiappe-tonde.

CAPITOLO DUE NOVE

I tre Humvee superavano i posti di blocco della polizia settoriale come sabbia strinta tra le mani, ah, aver avuto quei pass ai tempi della Jam Pony.

La pioggia non accennava a diminuire, le luci della città riverberavano sulle gocce di acqua che rigavano i vetri oscurati dei mezzi militari. Max, incatenata alla roll bar  del Humvee osservava Seattle allontanarsi dall’interno del mezzo. Le luci dei grattaceli del centro si affievolivano sempre più, fino a scomparire del tutto. La strada fuori città era priva di illuminazione, le uniche luci erano quelle dei fari degli Humvee. Fu in quel momento che Max smise di guardare oltre il finestrino. Dalla radio dell’auto proveniva, a basso volume, della lagnosissima musica country.

Ames White era sullo stesso mezzo di Max, entrambi sui sedili posteriori.

«… sì è stata catturata… No, nessun problema. Saremo lì entro sette ore, tenete tutto pronto, voglio essere io quello che le entrerà dentro per primo, Fenestol», disse White ed interruppe la chiamata al cellulare.

«Ames, senza nemmeno i preliminari? Tua moglie ha ceduto così al tuo fascino?» domandò ironica Max, poi volgendo lo sguardo direttamente su White, «Te la ricordi tua moglie vero? Quella che hai ucciso, ma sì che te la ricordi Wendy».

White senza proferire verbo fece partire un diretto in pieno volto della ragazza facendole sanguinare il naso.

«Certo che…» sputando un po’ di sangue, «… Sai come si tratta una ragazza…»

«Tu, sei feccia. Sei materiale di scarto, e quando saremo arrivati dove dobbiamo, avrò l’onore di metterti le mani dentro lo stomaco e rovistare fino a quando non verrai sedata a causa delle grida di dolore, poi ti ricucirò e ricomincerò daccapo. I nostri scienziati metteranno le mani su di te solo dopo che io mi ci sarò divertito, ti è chiaro luridume?»

Max lo guardava fisso negli occhi, con entrambi, anche quello tumefatto, pareva divertita. Avrebbe voluto pulirsi il naso dal sangue, ma le catene che la tenevano costretta all’interno dell’Humvee non glielo permettevano.

«Sai Ames, tuo padre pare abbia fatto un gran lavoro con me, gira voce che io sia perfetta», disse 452 tirando platealmente su con il naso e sputando nuovamente sangue e muco.

White si limitò a lanciarle uno sguardo con la coda dell’occhio.

«Dimmi, non mi trovi perfetta?», il tono era suadente, quasi provocante, «Andiamo Ames, ehy…. Ma guardami… guardami negli occhi e dimmi che non ci hai mai fatto un pensierino».

Ames White sorrise, senza voltarsi.

«Dai Ames, puoi allungare una mano se vuoi, nessuno te lo impedisce, io non posso di certo, dai avvicinati…» disse inarcando la schiena ed esaltando il petto, «Le hanno fatte bene che dici? Eh sì, a Manticore sapevano come farci»

«Ehy tu», disse White rivolgendosi al passeggero davanti.

«Signore?»

«Punta la pistola alla testa di 452»

«Sissignore» estrasse la beretta semi automatica e la puntò alla testa di Max.

«Se muove un muscolo falle saltare la testa»

«Sissignore»

«Allora, 452, hai deciso di fare la carina con me…», mentre parlava Ames White, le posò una mano sulla coscia.

«Sai è piuttosto strano, ricordo di aver letto tutti i tuoi tatuaggi, quelli che adesso non ci sono più, compreso questo che ti è rimasto sul collo», indicò con l’indice il lato destro del collo di Max, «Ma…» proseguì grattandosi una guancia, «Non ricordo che ci fosse scritto che sei anche una troia»

Max si fece cupa in volto, cercò di scostare la gamba dalla mano di White.

«Eh no cara mia, adesso…», White fece scattare la propria mano sul pube della ragazza, «Adesso ci stai, non puoi tirarti indietro».

«No!»

«Pensavi fossi tanto sprovveduto da avvicinarmi? Pensavi davvero che non sapessi in quanti modi in una situazione del genere un X5 può uccidere a distanza ravvicinata anche se costretto mani e piedi?», la mano di White si insinuava sempre di più, con maggior forza e violenza.

«NO!» gridò Max, con gli occhi lucidi.

Poi White le si avvicinò, e le sussurrò una cosa nell’orecchio, «A Wendy piaceva così… i primi due figli, quelli che sono morti, li abbiamo concepiti così.»

Max lanciò un’occhiata carica d’odio nei confronti di quell’uomo tanto abietto.

«Mi fai schifo!» e gli sputò in faccia, sangue e saliva.

White si ritrasse, fece cenno al sottoposto di abbassare l’arma, ed estrasse un fazzoletto immacolato dal taschino della giacca. Si pulì il viso e sorridendo lo rimise nel taschino.

«Ecco vedi? Hai già cominciato a collaborare… campioni di DNA.

«Rilassati 452, sarà un viaggio lungo», poi si voltò in direzione del finestrino ed accavallò una gamba canticchiando.

Oh my darling, Oh my darling, 
Oh my darling Clementine, 

You are lost and gone forever, 
Dreadful sorry Clementine.

CAPITOLO… (un po’ di tempo prima)

Una cometa! Una dannata cometa! E come dovrei contrastare l’arrivo di una cometa? Ma per chi mi hanno preso?

«Max, ascolta…» Lydecker aveva assunto un tono paterno, era quel tono che tanto la metteva a disagio, «La cometa rappresenta L’Avvento, ma non è scritto da nessuna parte che questo grosso blocco di ghiaccio e chissà che altro, si schianti sulla terra, anzi la cosa non è nemmeno da prendere in considerazione, piuttosto il problema è un altro, passando anche vicino al sole, si scioglierà in parte rilasciando in atmosfera particelle di acqua mescolata ad un virus».

Logan si illuminò, «Ma certo!… Max, il diluvio universale! Quando accadde migliaia di anni fa il virus venne rilasciato in atmosfera, decimando probabilmente la popolazione terrestre e coloro i quali sopravvissero…»

«… Altri non erano se non gli antenati dei seguaci del culto del serpente.»

«Va bene, ma lo scopo qual è? Cosa vogliono esattamente?» domandò Max rivolta al telefono.

«Vogliono ereditare la terra, come fu cinquemila anni fa.»

«Cioè vogliono sterminare il genere umano per rimanere gli unici “eletti”? Ma è folle!»

«È da migliaia di anni che  perseguono la selezione genetica, il serpente col quale si sottopongono all’iniziazione non è nemmeno presente nei bestiari, di fatto non esiste. Il suo veleno è contaminato da quel virus, e ne è immune perché colpisce solo gli esseri umani. Manticore nelle intenzioni di Sandeman avrebbe costituito l’unica ancora di salvezza per il genere umano. Voi, i miei ragazzi e tutti gli altri di Manticore siete immuni da quel virus, ma tu Max… »

Lydecker fece una lunga pausa.

«Sandeman fece di te qualcosa di più, tu rappresenti l’unica salvezza per il genere umano»

Max volse lo sguardo su Logan.

«E io cosa dovrei fare?»

«Cosa devi fare è scritto sui tuoi tatuaggi, hai il manuale di istruzioni»

«Mossa astuta scriverlo in una lingua morta ed intraducibile. Sai leggere l’antico minoico, Don?»

«Nemmeno una virgola, ragazza mia, Sandeman non lo ha detto nemmeno a me, ma credo che tu sia in grado.»

«White ne fu in grado, e a quanto pare non gli piacque per niente ciò che lesse».

«Quello fu un buon segno Max», ma il sorriso di Logan era stiracchiato.

«Se ragioniamo in termini militari, in questo momento il nemico sa cosa possiamo fare e farà di tutto per contrastarlo mettendo a punto un piano specifico… mentre noi…»

«Calma con il “noi”, Don».

«Max, noi “genere umano”, siamo dalla stessa parte».

«”Il nemico del mio nemico è mio amico” non funziona con me».

«Fattelo funzionare allora! Perché qui c’è in ballo molto di più del tuo risentimento verso di me o Manticore!», Lydecker parve seriamente preoccupato nel constatare la scarsa visione d’insieme di una dei suoi pupilli.

«Lydecker, Max sa bene cosa c’è in ballo, manteniamo la calma e organizziamo un piano», s’affrettò a proseguire Logan cercando di placare gli animi.

«D’accordo figliolo, ma dovremmo vederci».

«Domani alle ventuno e zero zero, a Terminal City, Don. Fatti trovare a Market Garden un’ora prima, manderò qualcuno a prenderti», detto questo Max interruppe la conversazione.

«Non devi più cercare di addolcire quanto esprimo, Logan», Max era seria.

«Ti capisco, ma come ha detto Lydecker, c’è in ballo molto di più, e lui sarà un alleato prezioso», ribattè Logan  aggiustandosi gli occhiali e mettendo le mani in tasca.

I due rimasero immobili ad osservarsi.

Una piccola smorfia sul volto di Logan fece la sua comparsa, per sottolineare l’accaduto e la particolarità della situazione.

Max ricambiò l’occhiata ma…

 «Questa è fatta… e adesso mi dici come mai indossi l’esoscheletro»

Continua…

DARK ANGEL: PERFETTA [Prima Parte]


Aggiornato il  07/05/2013

Terminal City

PERFETTA

 

«Avevano progettato il soldato perfetto un’arma umana… ma poi è fuggita. In un futuro non troppo lontano, in un mondo devastato è ossessionata dal suo passato, non può scappare, deve combattere per scoprire il suo destino.»

PROLOGO

Perfetta macchina da guerra, geneticamente modificata.

Già, fino a un po’ di anni fa la parola “perfetta” non avrebbe avuto più peso di quello che ha come aggettivo in una frase altisonante, ma adesso… Tutto è cambiato, tutto intorno a me è cambiato… e persino dentro. La mia “perfezione” è visibile, tangibile e persino leggibile. Ormai sono una specie di bibbia ambulante, con messaggi segreti ed indecifrabili. E tutto questo è opera di una singola persona, Sandeman… il mio dottor Moreau personale. Il NOSTRO dottor Moreau personale.

Mio, dei miei fratelli e delle mie sorelle.

È buffo come alle volte la vita sia “perfettamente” circolare.

Fai di tutto per fuggire da un posto che ti tiene prigioniero e finisci in un altro posto da essere libero, ma altrettanto prigioniero.

Prigioniera del pensare comune, delle paure altrui… e persino di me stessa.

Una sublime contraddizione in termini.

La mia nuova casa: Terminal City.

Ho quasi dimenticato come sia la pelle di Logan, avrei dimenticato anche il suo profumo se nel mio cocktail, il dna non fosse stato potenziato e tutti i miei sensi non fossero acutizzati. Quello lo sento ancora, anche a distanza… Solo a distanza.

Due settimane fa ho rivisto Normal, “Beep Beep Beep Normal”,mi ha chiesto come sto e mi ha mandato al diavolo. Ha mandato al diavolo me, i miei amici mostri, e il Grande Comunicatore. A sentir lui non aveva comunicato al mondo il progetto Manticore… Credo che G.W. Bush abbia ormai perso diversi punti nella personale classifica di superuomini di Normal.

Alcune cose cambiano… è un buon segno.

Chissà forse c’è ancora speranza.

CAPITOLO UNO

La polizia non aveva mai smesso di fare il proprio lavoro dopo che i mutanti divennero affare di stato. E difatti lo sfollagente rimaneva ancora il passatempo preferito degli zelanti uomini di legge a spasso per Seattle. Un soldato geneticamente modificato, creato per combattere nella giungla tropicale, doveva sicuramente sentirsi perso tra i vicoli freddi e maleodoranti di una metropoli del nord ovest. Specialmente se tra lui e quegli strani e ghignanti uomini vestiti di blu scuro, vibravano tre o quattro sfollagente.

Sette, otto, nove colpi… dieci, undici, ma il dodicesimo rimase a mezz’aria, bloccato, in posa, come in un quadro di Norman Rockwell. Senza nemmeno rendersene conto, l’agente vattelappesca strabuzzo i suoi umidi occhi bovini, il naso arrossato per il freddo e un odiosissimo odore di cappuccino e donuts dal suo alito. Non fece nemmeno in tempo a vedere cosa lo stava mettendo ko che il secondo agente già stava gridando a causa del braccio spezzato poco sopra il polso. Il terzo agente indietreggiò, minacciando ed imprecando verso quella strana ragazza, che ricordava di aver visto al telegiornale delle otto mentre abbatteva cinque marines dei democraticissimi Stati Uniti d’America.

«Tesoro, se non chiudi quella bocca ti ci fanno il nido le mosche » disse la ragazza.

Il poliziotto, deglutì e cominciò a correre verso l’auto d’ordinanza. Col fiato corto, e alcune briciole di donuts ancora appiccicate sui baffi, aprì il cofano dell’auto ed estrasse il Benelli. Andava fiero del suo Benelli, il fucile delle squadre d’assalto della polizia, il fucile da irruzione negli appartamenti degli abusivi che si spaventano come conigli alla vista delle uniformi e delle loro armi.

Ma il Benelli, rimase solo un attimo tra le mani dell’uomo di legge, senza nemmeno accorgersene sentì i proiettili rimbalzare sull’asfalto del vicolo e rotolare inesplosi, il carrello con quel suo rumore rotondo e metallico cadere a terra e a due centimetri dal suo naso, oltre la visiera paracolpi, vide il volto di quella ragazza, quel volto così particolare, così intenso che per un paio di secondi visse assieme a lui un’ intensa notte di fuoco.  Solo due secondi perché allo scoccare del terzo tornò tra i mortali e udì delle parole distinte, chiare, limpide e cristalline.

«Tocca ancora uno dei miei fratelli e mangerai semolino per il resto della tua vita, tesoro. Sono stata chiara?».

Qualche attimo di smarrimento, e lo zelante agente riprese il controllo di sé. Fu in quel momento che decise di dire la sua grandiosa frase ad effetto:

«Brutta tro…» ma le parole rimasero sospese. I sensi presero il largo dal suo cervello.

«Ci baci tua madre con quella bocca?» E sorrise. Ma per sé stessa. Per le proprie frasi fatte. Frasi da dura, ascoltate e assimilate dai film, dai telefilm, dai fumetti.

Un colpo perfetto, assestato come solo una perfetta macchina da guerra avrebbe potuto fare. E l’uomo perse i sensi.

«Dovevi solo dire Sì, sei stata chiara… ma che hanno gli uomini di questa città? Stanno diventando sordi o masochisti?»

La ragazza si voltò in direzione degli altri agenti, che ancora stavano a terra gridando dal dolore, e fu in quel momento che vide suo “fratello” sgusciare in una fogna.

Non era riuscita a portarlo a casa, a Terminal City, ma almeno non era più tra i randelli degli uomini in uniforme.

«Max!» gridò una voce. Una voce del passato recente, una voce che due anni prima chiunque avrebbe pensato venire dall’oltretomba. Max lo riconobbe all’istante, l’espressione malinconica e indurita allo stesso tempo, di chi ha vissuto troppo in troppo poco tempo.

«Sage?!» Max si avvicinò al ragazzo, ormai fattosi adolescente, senza sapere esattamente cosa dire.

«Max! sei proprio tu allora!» Un’ lampo di sincera felicità balenò tra gli occhi del ragazzo. «Dopo quella notte a Cape Heaven non pensavo che ti avrei più rivista»

«Che ci fai a Seattle, Sage?» chiese sorpresa Max, poi di colpo si fece preoccupata, «Si tratta di tua zia Trudy? Le è successo qualcosa?»

Sage sorrise: «No, Trudy sta benone… e come ben sai non è mia zia, no sono a Seattle con degli amici», disse mettendo le mani in tasca e guardandosi attorno quasi imbarazzato «Sai alla tv non parlano altro che di quei mutanti, così ci siamo detti, Hei perché non andiamo a Seattle a vedere i mostri dal vivo?E così eccoci qui» .

Quel sorriso su quel volto, dopo aver pronunciato quelle parole, con ricordi che si mescolavano in un caleidoscopio di immagini passate, Max sentì come una coltellata al cuore. Guardò quel ragazzo sorridente e quello che vide la spaventò ancora di più.  Nel sorriso di Sage non c’era cattiveria, non c’era pregiudizio, c’era solo la noia e la voglia di fare qualcosa di nuovo. A quanto pareva i mostri erano una buona alternativa al bar di Cape Heaven.

«Sei fortunato Sage, hai incontrato i tuoi primi mostri oggi… e dimmi com’è? Ti sei divertito?»

Sage voltò lo sguardo indietro, in direzione del tombino dal quale il mutante fuggì, e tirando su le spalle disse «L’ho appena intravisto, ma è stato fico… tutte quelle squame, chissà a che serviva?»

«Chi lo sa? Magari lo hanno fatto per diventare un paio di scarpe!», disse con voce decisa, inclinando la testa da un lato e stringendo gli occhi per mettere a fuoco qualcosa che non capiva. O forse aveva paura di capire. Dentro si stava lacerando qualcosa e Max lo sentiva.

Sage si voltò nuovamente verso Max e sorridendo a quella che pensò fosse una battuta rispose: «Naaa lo sanno tutti che erano stati fatti per la guerra».

L’espressione di Max si fece dura e triste allo stesso tempo. Sage comprese che qualcosa non andava e pian piano il sorriso sul suo volto si affievolì, «Max…»

«E io? Secondo te a che servivo io?», domandò Max con un filo di voce e gli occhi gonfi di lacrime.

«Complimenti ragazzo, hai appena avuto il tuo incontro ravvicinato del terzo tipo, raccontalo pure ai tuoi amici».

Il ragazzo non disse nulla, rimase lì, impietrito, solo e con un macigno addosso che non sapeva come togliere. Max, si allontanò, la Ninja 650 era poco distante.

Non si voltò indietro.

CAPITOLO DUE

La vecchia casa di Joshua, e prima ancora appartenuta a Sandeman, venne risistemata, nei limiti del possibile e del sospettabile. La catapecchia che aveva fatto compagnia al viale lì davanti non poteva né doveva diventare qualcosa di più di ciò che era sempre stata. Non era salutare in quel periodo far incuriosire i poliziotti, e meno ancora i vicini, che quando diventano folla sono anche peggiori degli sbirri.

Aveva continuamente bisogno di attrezzature, molti computer avevano vita breve a causa dell’umidità, del fatto di essere hardware rattoppato e perché comunque i dischi su cui salvava gran parte dei suoi appunti andavano comperati. Ma aveva problemi ad uscire, problemi di identità. I droni volanti erano sempre in giro per la sorveglianza e le autorità sicuramente lo stavano cercando anche se nessuno degli uomini di White svelò chi fosse in realtà Solo Occhi. E questa cosa più di ogni altra rendevano Logan estremamente cauto.

Logan sapeva bene come tenere un basso profilo, ormai era quello che faceva da più di un anno, da quando gli uomini di White fecero irruzione nel suo attico distruggendo completamente l’attività di Solo Occhi. Logan sapeva bene un’altra cosa però, che se avesse rivisto ancora quel lucernario del suo attico, il dolore sarebbe riaffiorato con maggiore intensità. Quel lucernario fu il passaggio che permise a quella ragazza tanto straordinaria di irrompere nella sua vita. Fu la chiave di volta di tutta la sua esistenza, nel bene e nel male, quello strafottuto lucernario fu la sua croce e la sua delizia.

«…Ok Sebastian, ci sono», disse Logan seduto davanti al monitor sverniciato e colorato con bombolette spray da qualche graffitaro in una qualche discarica.

«Bene Logan adesso dovresti vedere una palazzina più piccola delle altre poco sorvegliata.»

 La voce metallica del sintetizzatore vocale di Sebastian rimbombava nelle cuffie di Logan. Quel genio muto, cieco e tetraplegico era una delle poche fonti rimaste ancora attive in grado di aiutare Solo Occhi.

«Sì la vedo…», confermò Logan, sul monitor la vista dal satellite restituiva un’immagine in bianco e nero piuttosto nitida.

«Quello è l’ossario»

«L’ossario?»

«È il luogo in cui fanno sparire le prove, il magazzino degli scarti»

«È abominevole… ma anche se è il luogo meno sorvegliato, l’intero complesso…»

Sebastian interruppe Logan, «L’intero complesso è quasi inespugnabile.»

«Quasi… per me è già qualcosa».

«Il mio “quasi” è puramente semantico, a rigor di logica non esiste alcunché realizzato dall’uomo di perfetto ed inattaccabile».

Il pensiero di Logan andò immediatamente a lei, e la rivide con la mente, mentre sorniona e sarcastica maneggiava con non curanza la statuetta della dea egizia Bast nel corridoio dell’attico che aveva un tempo. No, qualcosa di perfetto esisteva, ed era stato creato dall’uomo. Logan questo lo sapeva, ne aveva la certezza.

«Devi stare molto attento a quella gente non si fermeranno davanti a nulla, la faccenda con la serie Rossa fu una scaramuccia a confronto. Qui stiamo parlando di persone che hanno alle spalle millenni di selezione genetica. I soldati di Manticore sono molto efficienti, ma in questo frangente i Familiari del culto sono più pericolosi, letali e motivati.»

Come riprendendosi da un sogno ad occhi aperti: «Anche la gente di Terminal City è motivata, adesso ne va della loro vita.»

«Lo scopo, è ciò che rende pericolosi i cultisti, e il fatto che non temano la morte.»

«Lo terrò a mente…», disse togliendosi gli occhiali e stropicciandosi gli occhi, «Ah, Sebastian, sei poi riuscito a decifrare altro dei tatuaggi di Max?».

«Non ho ancora niente di definito, solo parole che senza una sintassi possono voler dire tutto e niente, ti farò sapere appena ne capisco di più, questo tipo di minoico antico è da sempre un mistero».

«Ci conto, a presto…» e togliendosi le cuffie, Logan voltò lo sguardo verso la finestra sudicia come il peccato.

Fuori pioveva, l’aria era fredda ed umida, la vecchia casa puzzava di muffa e acetone. Ogni tanto un flash.

Lucidalabbra alla ciliegia.

CAPITOLO TRE

Terminal City era ormai diventata una città nella città. Separata da un muro eretto in fretta e furia dalla giunta comunale, circondato da filo spinato, da mine nei punti caldi  e sorvegliato giorno e notte da squadracce della polizia,  pronte al minimo accenno di sconfinamento a sparare ad altezza coso, come dicevano in gergo.

I mutanti all’interno di Terminal City cercavano di condurre vite dignitose, alcuni sopravvivevano altri vivevano, altri ancora approfittavano. “La gente ha tutta la stessa forma interiore, sono solo i gusci esterni a cambiare il nostro modo di rapportarci”, pensava Max.

Nel suo appartamento, così si ostinava a chiamare il tugurio in cui viveva, Max se ne stava davanti allo specchio, completamente nuda, seduta al contrario su una sedia. Si osservava, guardava sé stessa e ripensava al suo recente passato. L’ostinata ricerca di un’identità che non aveva mai avuto ma che si era costruita durante tutti quegli anni da quando era fuggita da Manticore, e che faceva da perno per tutti gli avvenimenti che accaddero in seguito.

Gran parte del suo corpo ormai mostrava tatuaggi con messaggi in antico minoico, peggio, quell’antico minoico conosciuto come Lineare A che a differenza del Lineare B è da sempre stato intraducibile. Ricordava il giorno in cui assistette al rito del serpente, a quel libro scritto proprio in minoico Lineare A utilizzato dalla setta e al simbolo caduceo, il simbolo della medicina in ogni parte del mondo, che compariva in ogni angolo di quella specie di collegio di folli. Ma perché quei tatuaggi comparvero su di lei? Qual era il suo scopo? E per quale motivo tutto ciò che aveva scoperto in quei lunghi mesi era come aver scoperchiato il vaso di Pandora? Tutto riconduceva l’intera vicenda lungo molti millenni di storia umana, il simbolo della Manticora, l’essere composto, il simbolo caduceo scoperto persino in Mesopotamia. Tutto ciò la faceva sentire usata per un fine a lei oscuro. Si sentiva come depredata dell’umanità e dell’individualità conquistata anche col sangue dei suoi fratelli e sorelle.

Parte di essi, però, venne decifrata, “quando il velo della morte ricopre la faccia della terra, la salvezza sarà portata da colei il cui potere è nascosto” si faceva menzione di una specie di eletta, di una catastrofe di dimensioni bibliche. Era esattamente questo che più spaventava Max, il dover essere l’ago della bilancia. Dopo che a Manticore venne scoperto il suo patrimonio genetico perfetto, Max sentì sempre più incombente il peso della responsabilità. Sentiva il bisogno di raggomitolarsi tra le braccia di una sola persona, l’unica persona che non poteva nemmeno sfiorare.

E poi c’era stato Sage quel giorno.

Ricordava ancora quel bambino che quella notte rimase accanto a lei durante una sua crisi da calo di serotonina, mentre fuori scoppiava l’inferno. L’essere perfetto, e geneticamente modificato, andato in tilt per un cortocircuito neurale. Erano ormai mesi che non faceva più nemmeno uso del triptofano, probabilmente gli ultimi assestamenti nel suo codice genetico stavano andando a posto da soli.

Sorrise amaramente « Forse ho finito il rodaggio », pensò ad alta voce.

In quell’istante squillò il telefono. Max lo lasciò suonare finché non entrò in funzione la segreteria

«Max… ci sei Max?..».

Era Logan, ma non aveva il coraggio di sollevare la cornetta, ormai erano mesi che nemmeno si parlavano più direttamente. Max decise che i messaggi in segreteria l’aiutavano a mantenere le distanze, a rendere più semplice la lontananza. Max mentiva a sé stessa, sapeva di mentire ed ogni volta rincarava la dose. Adesso erano  due settimane che nemmeno lasciava più messaggi in risposta a Logan nella sua segreteria. Quale sarebbe stato il prossimo passo? Quel cavo… così delicato… un piccolo strattone e anche quell’ultimo legame sarebbe stato reciso.

«Max non importa se ci sei, ma spero che almeno ascolti questo messaggio perché si tratta di qualcosa di importante… si tratta di White e della sua setta di folli»

CAPITOLO QUATTRO

Si sentivano delle grida, dei grugniti, dei ringhi venire dal garage della vecchia centrale termoelettrica a nord est di Terminal City. Gente che urlava, urla di incitamento per qualcosa che stava avvenendo.  Joshua decise che voleva vedere cosa stava accadendo, ma ad un tratto il suo olfatto canino gli fece capire immediatamente cosa era: un forte odore si sangue proveniva dal basso.

Scendendo lungo la parete e continuando ad annusare l’aria, Joshua arrivò al garage e lì vide un assembramento di persone, transumani e transgenici assieme che gridavano verso il centro di quella specie di arena umana. Il calore era asfissiante, bruciatori e caldaie a pieno regime per poter dare energia all’intera Terminal City. A Joshua parve subito strano vedere mutanti e serie X stare vicini, sapeva che le due anime di Manticore non si potevano vedere erano incompatibili, incomprensioni di classe, come le definiva il suo amico Luke. “Siamo più umani di quanto vogliamo ammettere, noi e gli umani veri” pensò Joshua. Ed era vero, da quando Terminal City ebbe il suo giorno di fondazione e la gente che vi viveva ebbe il suo riconoscimento come freak nation le varie anime di questa nazione si scontrarono ideologicamente, scontri razziali e intolleranze. Tutto nella migliore tradizione umana. “Cane non mangia cane” pensò Joshua… “Cani strani siamo noi”.

« orza Mole! Fagli sputare sangue al quel X-Merda!»

«Alec,  allo sterno! Colpisci la lucertola allo sterno!!»

Con sorpresa di Joshua le incitazioni dei compagni erano per uno scontro tra due dei suoi migliori amici, Mole e Alec, un transumano e un X-5. Non aveva idea del perché stessero combattendo, ma aveva subito intuito che non si trattava di semplice allenamento o uno dei tanti combattimenti per scommessa che avvenivano tra le due grandi famiglie di mutanti. No c’era altro sotto tutto quel sudore e quel sangue.

Alec, X5-494 come lo avrebbe chiamato White, era ormai una maschera di sangue, bei tempi quelli in cui si faceva chiamare Monty Cora e combatteva per soldi in incontri per ricchi annoiati, e soprattutto senza avere di fronte altri avversari potenziati. Ma adesso, a Terminal City lo erano tutti, potenziati. E combattere contro Mole, nel suo ambiente naturale, alle alte temperature del garage, fu uno dei suoi grossi errori di quel giorno. L’uomo-lucertola, come lo aveva chiamato Alec poco prima di trovarsi col naso rotto in tre punti a causa delle nocche rivestite di resistentissime squame ossee, stava infierendo su di un X-6 giunto da poco a Terminal City. A sentire Mole, quel X-6 collaborava con White e la sua setta.

Bastava poco a Mole per redigere il verdetto di colpevolezza, ma era questo che piaceva a Terminal City, l’uomo forte col pugno di ferro a proteggere la loro auto-prigionia.

Alec conosceva bene quel X-6 era Bullet, X-6 787 salvato da Max un anno e mezzo prima. In uno dei rari momenti di eroismo, Alec si era sentito in dovere di prendere le difese di quel ragazzo, ridotto ormai ad uno straccio da parte del grosso uomo lucertola. A pensarci bene, forse Alec non lo aveva fatto per altruismo, ma come molti in quel periodo a Terminal City sentivano prudere le mani quando c’erano di mezzo transumani, nel caso di serie X, o serie X nel caso di transumani.

Dopo un quarto d’ora di massacro, perché definire lotta lo scontro non aveva alcun senso, entrambi i soldati si reggevano a malapena in piedi.

«Puoi dire alla tua amica dal culo rotondo… di stare alla larga da me e dai miei uomini», minacciò ansimando Mole.

«Ho… ho saputo che hai provato a dirlo tu stesso a lei… com’è andata lucertola?… ti ha fatto vedere i sorci verdi come al solito?… eh eh eh», ribatté Alec curvo su sé stesso e tenendosi lo stomaco.

Mole, preso da uno dei suoi attacchi d’ira si gettò su Alec, il quale non avrebbe mai avuto la forza di scansare quella furia. Joshua lo intuì e si frappose tra i due finendo a terra colpito in pieno volto da Mole.

Le grida di incitamento cessarono di colpo, un silenzio colpevole, calò nel garage.

«Joshua! Che accidenti ti salta in mente?» gridò, seccato e incredulo Mole.

Joshua non disse una parola, con parte del volto insanguinato a causa del taglio provocato dalle escrescenze ossee di Mole, si alzò in piedi e aiutò Alec a non cadere a sua volta. Joshua aveva tutta l’intenzione di portare via il suo amico da quel posto a costo di combattere egli stesso con Mole. E lo avrebbe fatto con la morte nel cuore. Anche Mole è un buon amico di Joshua.

«Beh? Che ti prende?» insistette Mole.

Joshua lo guardò, con una profonda tristezza, «Noi…» ed indicò tutti quanti,  «Noi, siamo meglio di così…» Poi si allontanò, nel silenzio generale, portando con sé il suo amico.

«Josh…» sussurrò Alec, «Da quando sei diventato Obi Wan Kenobi?».

«Ah… Ahrgh Obi… Obi Uan?… è amico di Rin Tin Tin?»

CAPITOLO… (un po’ di tempo prima)

«Che significa che non sapete dove sia? Lo sanno anche i sassi che è a Terminal City… non lo so come farete ad entrare non è un mio problema… sì esattamente… Voglio X5-452, e la voglio entro la settimana» detto questo Ames White chiuse il cellulare che rimise nella tasca interna dell’impermeabile grigio, si guardò attorno, forse per vedere se c’erano mutanti ad osservarlo, aprì la portiera posteriore della Lexus ed entrò in auto.

Dall’ultimo incontro diretto con X5-452 molte cose erano cambiate nella sua vita. Per la prima volta si era reso conto dei progressi di Sandeman, di ciò che era riuscito a fare con quelli che lui definiva scherzi di laboratorio o sub-umani. X5-452 era la chiave di tutto il progetto Manticore e forse l’unico ostacolo che si frapponeva tra la Famiglia e l’Avvento.

Ames White ricordava fin troppo bene l’umiliazione subita due anni prima durante l’assedio alla Jam Pony, quando un gruppo di transumani e X5 presero in ostaggio i dipendenti di quella topaia. Ricordava bene il dannato uomo-cane che per un pelo non lo uccise. Ricordava anche che se non fu ucciso, fu solo grazie a X5-452, e questa era una cosa che gli bruciava dentro. Era una cosa che non riusciva a tollerare. X5-452 sarebbe stata nelle sue mani, e lui in persona avrebbe preso il bisturi per vedere cosa accidenti avesse al suo interno.

Il cellulare squillò ancora.

«White… Fenestol. Abbiamo due serie X nuovi per gli esperimenti, X6-787 e X6-809. Da quanto abbiamo scoperto conoscono personalmente X5-452. Potrebbero rivelarsi utili per portarla allo scoperto, quella cosa ha un attaccamento morboso verso i suoi pari… sì sarà proprio quello a portarla da noi, sempre se non la prendiamo prima… La stiamo seguendo, ci sono dei Familiari che tengono d’occhio i suoi amici e conoscenti, sappiamo dove come e quando esce da quel letamaio che chiamano città… aspettiamo solo il momento giusto.»

La voce all’altro capo del telefono disse qualcosa di inaspettato perché l’imperturbabile espressione di White ebbe un lieve cambiamento.

«…ho capito. Avvertirò i confratelli e attenderò il conclave… Fenestol».

Richiuse il cellulare e tamburellandolo un paio di volte sulle labbra, pensò a quanto aveva appena saputo.

«Cambio di programma» disse, rivolgendosi all’autista, anch’esso uno dei Familiari, «Portami all’aeroporto».

CAPITOLO CINQUE

Nella sua nuova casa, Logan stava facendo esercizi di ginnastica, per mantenere il tono muscolare delle gambe. Anche se White dopo che fece irruzione nel suo attico e distrusse la base operativa di Solo Occhi, non disse nulla ai suoi superiori Federali – perché White aveva ben altre persone cui rendere conto – uscire di casa, per Logan era comunque rischioso. Il Dottor Sam Carr, suo vecchio amico, lo aveva aiutato un’infinità di volte in passato, sia lui che Max. Anche se Logan non poteva uscire normalmente e non avrebbe mai potuto raggiungere l’ospedale per sottoporsi a ginnastica riabilitativa, Sam lo seguiva ogni giorno grazie ad internet… quando non si impallava a causa dei frequenti black out. La capacità di deambulazione di Logan dipendeva gran parte dalla seconda trasfusione di sangue donatogli da Joshua quando per un banale errore Logan sfiorò il braccio di Max e rischiò di morire. Le cellule che avevano rigenerato il suo midollo spinale erano come delle dinamo, dovevano essere continuamente caricate e per farlo Logan doveva mantenersi in movimento il più possibile. Chissà, magari con una terza trasfusione di sangue transgenico avrebbe definitivamente archiviato la questione gambe

«Logan, sei in casa?» era la voce metallica del sintetizzatore vocale di Sebastian.

Logan non pensava che lo avrebbe richiamato così presto. Così scattò in piedi, sudato come può essere sudata una persona dopo due ore di ginnastica, inforcò gli occhiali e prese l’asciugamano. Asciugandosi il collo mise le cuffie ed avviò la conversazione.

«Sono qui, Sebastian, che hai per me?»

«Ho studiato a fondo ciò che mi facesti avere di Max, gli studi provenienti da Manticore, tutta la sua catalogazione genetica, il suo patrimonio speciale. La ragazza è perfetta Logan.»

«Questo lo so» disse sorridendo Logan, ma sapeva a cosa si riferiva Sebastian.

«Sto parlando di perfezione funzionale, Logan. Max funziona in maniera perfetta, questo significa che tutto di lei ha uno scopo preciso, ogni singola cellula, ogni atomo del suo corpo, ha una corrispondenza nell’economia della sua funzione.»

«Aspetta, mi sto perdendo… che vuoi dire esattamente?»

«…ho una mia teoria sul virus, Logan. Ma non c’è modo di sapere se sia corretta senza delle analisi su Max».

«Sai bene che non può, Sebastian. Il suo volto è conosciuto, tutti sanno chi… anzi sanno cosa è. Nessun ospedale di Seattle o di qualsiasi altro stato del paese, manterrebbe il riserbo».

«Allora c’è solo un modo…» a quelle parole calò il silenzio. Lo sguardo perso nel vuoto di mille pensieri di Logan. La speranza del miracolo. Il desiderio.

Il lucidalabbra alla ciliegia.

CAPITOLO SEI

Il telefono di Max squillò… squillò… e squillò ancora.

«Questa è la segreteria del numero che avete fatto, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico. Non so se sarete richiamati».

Il segnale acustico fece il suo ingresso nella cuffia che Logan portava all’orecchio

«Ciao Straniera, sono io… Ti sembrerà strano… non lo so… forse no. Penserai che ti sto perseguitando. Le cose tra noi non sono più come prima, ma questo non vuol dire che non possiamo più parlare. Max? Ci sei? Se ci sei ti prego… per questa volta, solo per questa, solleva il ricevitore e parlami. Ho bisogno di parlare con te… Max?»

Lo guardava fisso, immobile senza battere ciglio. Quello stupido telefono con quella altrettanto stupida segreteria. Perché questa volta avrebbe dovuto rispondere? Perché stavolta avrebbe dovuto essere diverso?

«Max ti scongiuro alza quel dannato telefono e parlami! Non farti venire a cercare »

«Non minacciarmi, Logan!» prendere la cornetta e pronunciare quella frase fu quasi istantaneo. Ma Max sapeva che non la avrebbe mai voluta dire. Perché lui continuava ad insistere? Perché non capiva che ciò che lei faceva era per lui? Perché? Perché?

«Max… sono mesi, che non parliamo, che tu non vuoi parlare. Almeno questo me lo devi…»

«Che cosa? L’ultima sigaretta? È questo che vuoi Logan?… lo ricordi com’è stato l’ultima volta… te le ricordi quelle dodici ore… anche quelle furono ‘un’ultima sigaretta’ e cosa abbiamo avuto dopo? Niente, solo rimpianti…»

«Io non ho nessun rimpianto…»

«Ma io sono velenosa…»

«Te lo ricordi Max? Te lo ricordi cosa mi dicesti dopo che l’effetto della trasfusione del tuo sangue finì e smisi di camminare di nuovo?»

« Sì… ed era vero, non mi importava che tu camminassi o meno»

«Beh perché è la stessa cosa che ti dico io adesso, non mi importa se sei “velenosa”, io… »

«NO!», l’interruppe bruscamente Max, «No! Deve importarti! Ti deve importare per forza perché ne va della tua vita, Logan. E se ti dovesse succedere qualcosa per colpa mia non riuscirei mai a conviverci.»

«Max», riprese pacatamente Logan, «Si tratta della mia vita è vero, è questo il punto. E comunque ti sto chiedendo solo di vederci, non di uccidermi. Puoi continuare a dire di no ma verrò a Terminal City e…»

«E  morirai. Ma non per mano mia»

«Che vuoi dire?», domandò con un accenno di preoccupazione Logan.

«Qui le cose si sono fatte tese, tutti i passaggi dall’esterno all’interno sono stati chiusi e i pochi che si possono utilizzare sono sorvegliati dagli uomini di Mole. Hanno deciso di dare un giro di vite alla cosa. Qui NOI, di là VOI. Questa è la nuova politica di Terminal City»

«Ma non puoi parlarci?… con Mole intendo».

«Mole è un isolazionista, ed uno zuccone, ha molti che la pensano come lui, persino Dix fa discorsi strani da un po’ di tempo e la cosa si sta diffondendo. Ho paura che si diffonda talmente tanto che farà fatica a rimanere entro i confini di Terminal City»

«Ma se si venisse a sapere…»

«Ci farebbe visita anche l’esercito e non solo la guardia nazionale a sorvegliare i muri esterni. Si scatenerebbe la guerra. Ed io avrei una sola parte con cui stare…».

«Ok, senti, vediamoci in un qualche altro posto… Che ne dici dello Space Needle?»

«Logan ti prego…»

«Sarò lassù stasera alle 9, ti aspetterò per un’ora, poi… che tu ci sia o non ci sia, sarà l’ultima volta che ti cercherò e sarai libera di combattere la tua guerra»

Non attese la risposta, Logan chiuse la chiamata. Facendo così aveva una finestra di speranza ancora aperta. Non sapendo subito cosa Max aveva deciso, avrebbe potuto sperare ancora un po’. Ma come aveva detto a lei, sarebbe stata l’ultima volta. L’amava e lasciarla era l’ultimo ed unico modo ormai per dimostrarlo.

D’un tratto la porta dell’appartamento di Max si spalancò.

«Max!» era Stich, del centro di sorveglianza, specializzato in radiotrasmissioni e crittografia.

«Un “ordinario” lungo il confine sud! Devi fare qualcosa, nessuno dei nostri è là, ci sono solo i ragazzi di Mole ma ancora non se ne sono accorti!»

«Chi c’è al centro di controllo?» domandò Max mentre prendeva il giubbotto di pelle.

«Al momento siamo solamente io e Luke, Dix e gli altri sono in pausa, mi ha mandato Luke, quando torneranno saremo costretti ad avvertire Mole ed i suoi»

«Andiamo!» disse, ed uscì dalla porta mentre indossava il giubbotto seguita da Stich.

CAPITOLO SETTE

Sage stava tremando come una foglia. Era seduto su un bidone rugginoso, di quelli che servivano per il trasporto del carburante. Non sapeva che stava succedendo, lo avevano bendato. Chi era stato non lo sapeva, ricordava solo di aver sentito un forte colpo alla nuca con qualcosa di molto pesante. In fondo non faceva niente di male, stava solo curiosando fuori da quella che ormai era conosciuta Freak City o Monstertown. Adesso però era all’interno di Terminal City, aveva l’occasione di vedere di persona come fosse Monstertown. Ma ripensandoci forse, sarebbe stato meglio continuare a vederla da fuori.

«…non possiamo farlo Mole, lo sai… non lo possiamo fare».

«E chi lo dice? Lei? Me ne fotto di quello che dice, lei non è una di noi, è stata troppo tempo fuori per sapere come vanno veramente le cose», grugnì Mole.

Mole era quello che nei vecchi film hollywoodiani faceva la parte del duro. Ed era esattamente quello: un duro. Una volta ruppe due braccia ad uno perché disse che gli sembrava un Gorn, seppe in seguito cosa fosse un gorn, uno dei tanti alieni con la faccia da rettile apparsi in Star Trek,. L’aspetto di Mole era minaccioso, pelle squamata, escrescenze ossee da difesa sulla testa ed un sigaro perennemente acceso tra i denti… senza contare il caro vecchio fucile a pompa che non lo abbandonava mai. E la sua semplice ed efficace visione del mondo: NOI e VOI. Ultimamente nel gran calderone del VOI avevano cominciato a finirci anche i transgenici di aspetto umano.

«Andiamo Mole, è solo un ragazzo, che vuoi che faccia?» disse Kan Noon, un altro transumano rettiloide.

«Senti stronzo, qui si fa come dico io, intesi? Quando due anni fa ci siamo riuniti per definire i ruoli a me è toccato quello dello “sbirro”, ed è esattamente quello che faccio». A Mole non serviva un gran pretesto per perdere le staffe.

«Fa come vuoi, ma farò presente alla prossima riunione del consiglio che non ero d’accordo sul far fuori il ragazzo “ordinario».

«Alla prossima riunione del consiglio ci saranno delle sorprese per il “consiglio”… farai bene a decidere da che parte stare Kan, e farai bene a deciderlo in fretta», disse puntando il fucile con una mano sola alla testa di Kan. Era solo un gesto intimidatorio, non aveva intenzione di premere il grilletto. Ma quando Mole agiva con un’arma in mano era sempre bene pesare più di una volta le parole.

Poi si rivolse al ragazzo, prendendolo per i capelli e tirandogli indietro la testa. Sage sentiva il suo fiato caldo sul volto, sentiva quel fetore misto a tabacco di pessima qualità.

«E tu…» ringhiò Mole «…Tu hai scelto il giorno sbagliato per ficcare le tue chiappe rosa dove non sei gradito».

Il fucile puntato in piena faccia di Sage e il dito sul grilletto. Mole alla sua massima espressione.

«Allora conto fino a tre… sempre che non mi vada di fermarmi al due, dimmi chi ti ha mandato!»

«Dunque è questo… il Mole-pensiero», esordì Max appena arrivata assieme a Stich. “Appena in tempo”, aggiunse tra i pensieri non detti.

Mole si voltò in direzione di Max ma col fucile ancora puntato su Sage: «Ragazzina questo è il mio lavoro, salvo le chiappe ai mostri se ancora non te ne fossi accorta. Quindi, se non è troppo disturbo, porta il tuo bel culo rotondo fuori di qui e lasciami lavorare».

«Lo farei Mole, se solo non stessi per metterci tutti nei casini se tu premessi quel grilletto» continuò Max, sempre con tono sarcastico. «Stich, libera il ragazzo, non siamo assassini».

Mole a questo punto estrasse una pistola con l’altra mano e la puntò in direzione di Stich: «Figliolo, fai solo un altro passo e ti faccio saltare le ginocchia».

Stich si fermò di colpo, come pietrificato e si voltò in direzione di Max cercando suggerimenti… o forse aiuto?

«Mole, fammi capire…», disse Max avvicinandosi un po’ verso di lui «Che intenzioni hai? Vuoi sparare al ragazzo perché è un umano? Una spia? Poi vuoi sparare a Stich perché gli ho chiesto di liberarlo e sparare anche a me perché… Perché vuoi sparare a me Mole? È perché ti tratto come un idiota ad ogni riunione del consiglio?»

«Sta’ zitta!» digrignò i denti.

«Perché, sai Mole… tu SEI un idiota».

«Sta’ zitta!» gridando di rabbia e con furia, Mole scansò il fucile dal volto di Sage verso di Max, facendo ciò Max ebbe l’occasione di disarmarlo in tre mosse. Gli X5 erano potenziati, più veloci e reattivi, Mole era un soldato in grado di sopravvivere nel deserto per mesi senza cibo né acqua. Ma in quel momento non era la capacità di  sopravvivenza di Mole il gene dominante. Max ebbe la meglio piuttosto facilmente, Mole era un essere a sangue freddo e ad una temperatura di dodici gradi la sua capacità di reazione era praticamente dimezzata, Il fucile fracassò al suolo e la pistola venne smontata in tre pezzi. Mole si ritrovò a terra con Max seduta sopra di lui:

«Deja-vu Mole…»

«Max! sei tu Max? ti ho riconosciuto dalla voce…», era Sage, che aveva intuito il cambio di ruoli in quel grande garage sotterraneo.

Mole si voltò in direzione di Sage, poi guardò Max, la furia e la rabbia come erano sopraggiunte, scomparvero: «È così allora… prima vengono gli amici e poi i tuoi simili… dovevo saperlo».

«Piantala Mole, sei fortunato che non ti spezzi una gamba» disse, dandogli uno scappellotto sulla testa.

«Se il ragazzo esce parla di noi ai suoi, lo sai…»

«Oh e chissà che dirà mai», disse ancora con tono sarcastico, Max, «Agente mi ascolti quel posto è pieno di mostri”… beh SORPRESA, Mole! Lo sanno già tutti su questo emisfero!»

«Max!! Sei tu?! Aiutami ti prego Max!», Sage iniziava a liberare le emozioni trattenute per la paura.

«Stich, fammi un favore slega il ragazzo e mandalo via», il tono era quello di un leader, e persino Mole lo colse. Max rivolse lo sguardo al grosso mutante sotto di lei, molte volte non servono parole per capire chi è il capobranco. Mole allargò le braccia e sospirò rassegnato. Max si sollevò e porse la mano a Mole per aiutarlo ad alzarsi. La guardò, prese il sigaro da terra, lo rimise tra i denti e diede la mano alla ragazza transgenica per aiutarlo ad alzarsi.

Appena liberato dalle funi da Stich, Sage tolse la benda e guardò in direzione di Max, stroncando sul nascere un sorriso alla vista della ragazza che un tempo gli aveva ridonato la sua identità, accanto a quella strana creatura col sigaro in bocca.

«Non dire una parola Sage, perché potrei prenderti a sberle. E sa il cielo quanta voglia ne avrei… adesso sparisci, vattene da qui. Non sei il benvenuto».

A quelle parole pronunciate da Max, Mole incrociò le braccia tirò una boccata dal suo sigaro e deliziò il ragazzo con un mezzo sorriso beffardo.

«Max se ho fatto qualcosa di sbagliato io…». Proprio non voleva capire.

«Sage! VATTENE DA QUI! I mutanti vivono qui, gli umani al di là del muro. Tu stai dalla parte sbagliata».

«Amen», chiosò Mole.

Stich prese per un braccio il ragazzo e lo accompagnò verso una delle poche uscite da Terminal City utilizzate dai transgenici. Sage continuava a voltarsi indietro, forse in cerca di un saluto da parte di Max, forse del perdono… forse.

CAPITOLO OTTO

Una delle tante serate a Seattle, freddo, umido e con una permanente pioggerellina battente, ecco come si presentava il momento a Logan. Vincendo il suo problema con le vertigini si arrampicò fino alla vetta dello Space Needle, ormai ridotto ad un fatiscente ricordo di ciò che era stato per Seattle prima dell’impulso elettromagnetico del 2009. Quella sera aveva deciso di indossare di nuovo l’esoscheletro che Phil gli lasciò quando ancora non era in grado di camminare. Stavolta, come in alcune altre occasioni decise che era il momento di metterlo. Si sentiva più sicuro, era diventato ormai come una sorta di coperta di Linus. Traballando un po’ per la paura di cadere, Logan raggiunse il tetto del “disco volante”, la parte superiore dello Space Needle. La superficie era piuttosto scivolosa per colpa delle polveri sottili che cadevano in continuazione assieme alla pioggia. C’era come una pellicola vischiosa che avrebbe fatto desistere chiunque dal fare due passi su quel tetto convesso a quasi centonovanta metri d’altezza. Ma Logan aveva altri pensieri quella sera, e le opzioni su come si sarebbe conclusa la serata erano davvero molte, un buon venti per cento finivano con la propria morte, ma a questo non voleva pensarci più di tanto.

Sorrise pensando alla follia che stava commettendo, ma stranamente si sentiva sereno.

Le nove e trentacinque, ma di lei ancora nessuna traccia. Forse non sarebbe venuta, anzi sicuramente non sarebbe venuta. Controllava l’orologio in continuazione controllando persino i secondi rimasti allo scoccare delle dieci.

Le nove e quaranta. Il maledetto orologio correva più del solito quella sera, un paio di volte era stato tentato di telefonare al servizio orario per controllare se per caso l’orologio che aveva al polso avesse tutto d’un tratto e proprio quella sera deciso di aumentare il passo facendo in modo di far saltare il suo appuntamento con Max. A questo pensiero gli venne da ridere… un appuntamento con Max.

Le nove e cinquanta. Decisamente il suo orologio aveva qualcosa che non andava. Quelle maledette lancette dovevano correre più velocemente del solito per forza. Tirò fuori la piccola torcia elettrica che aveva per le emergenze, la accese e la mise in bocca, mentre con la mano teneva su la manica del giaccone impermeabile per vedere l’orologio. Nonostante il riverbero sulle goccioline che si posavano sul quadrante riusciva a vedere la lancetta dei secondi muoversi… milleuno, milledue, milletre, millequattro… il vecchio modo di contare i secondi da giovane marmotta non impedivano di dimostrare alla lancetta dei secondi di giocare la partita onestamente. L’orologio non barava. Logan quella sera si era scoperto a sperare anche in quello.

Le nove e cinquantacinque. Ormai non sarebbe più venuta, dentro di se lo sapeva. Voleva chiamarla da lassù, per dirle che lui c’era. Ma sapeva che lei sapeva. Lo conosceva abbastanza bene da sapere che il paladino che voleva salvare il mondo si sarebbe persino gettato nelle fiamme per lei… e per il mondo. Gli sembrava quasi di sentirla mentre con uno dei suoi tanti interventi sarcastici criticava il suo modo di vivere la vita. Ma era Max.

Le nove e cinquantasette, l’umido ed il freddo si facevano sentire con maggior intensità dopo essere rimasti seduti immobili sul punto più alto della città. Così, facendo attenzione a non scivolare, Logan s’incamminò verso il centro del tetto curvo per rientrare.

« Mancano ancora tre minuti alle dieci… te ne vai in anticipo… »

Logan non credeva alle sue orecchie, era la sua voce, era lei. Mentre si avvicinava al centro del tetto continuava a guardare in basso per vedere dove mettere i piedi e perché se non vedeva il paesaggio circostante forse riusciva ad ingannare il proprio cervello facendogli credere di non essere a centonovanta metri di altezza.

Alzò lo sguardo, al diavolo il cervello. E la vide.

« Max », disse quasi sussurrando il suo nome, gli si illuminarono gli occhi e le proverbiali farfalle nello stomaco ripresero a sbattere le ali come quando, quattordici anni prima propose a Lucy Gualtieri il primo appuntamento.

« Te lo ricordi Sage? » disse Max avviandosi sul ciglio del tetto, con noncuranza per l’altezza e mantenendo la distanza di sicurezza da Logan.

« Il bambino di Cape Heaven… perché? », la domanda pareva strana a Logan, perché aveva tirato in ballo Sage?

« Lui è uno di VOI. », disse con tono freddo e distaccato.

« Che significa VOI? Che vuoi dire? »

Max continuava a guardare avanti a sé mentre Logan si era fermato ricurvo per mantenere l’equilibrio vicino alla finestra da cui era uscito, « Lascia stare… » disse, e si voltò verso Logan « Di cosa volevi parlarmi? ».

Logan rimase per un attimo senza parole, cercando nello sguardo della donna perfetta una qualche risposta. Ma non ne trovò. « C’è una teoria, che abbiamo elaborato… io e Sebastian… ».

« Una teoria a proposito di cosa? »

Logan lentamente tornava sui propri passi, avvicinandosi a Max, « Su quanto sta accadendo nell’ultimo periodo, sul tuo stato di salute. »

« Io sto benissimo », affermò senza batter ciglio Max.

« Lo so, è questo il punto, il tuo DNA è perfetto, ogni singolo cromosoma ha un suo scopo. Non ci sono falle. »

« Questo lo so già… »

« Già… vedi, io e Sebastian… » Logan continuava ad avvicinarsi, « …abbiamo fatto due più due ». Sempre più vicino.

Max stava cominciando a tendere i nervi, Logan si stava avvicinando troppo, e il pericolo era fin troppo palese « Bravi, fate i compiti a casa, domani che fate, studiate geografia? ».

« DNA perfetto, Max. Fai anche tu due più due… », disse avvicinandosi ancora.

Max lo osservava, come un predatore che studia il suo nemico, cercava di prevedere la prossima mossa. Ma era Logan, e vedere e sentire quella situazione in quei termini la metteva in forte disagio.

« Coraggio Max… pensaci… ».

A quel punto Logan scattò in avanti, fu così veloce grazie all’esoscheletro che portava sotto i calzoni che persino Max rimase stupita per un attimo. Logan cercò di toccare a mani nude quel viso perfetto e bellissimo, quel volto che per mesi non lo aveva mai abbandonato nei suoi sogni. Quel gesto avrebbe potuto essere l’ultima cosa che faceva. Il gesto entro il fatidico venti per cento. Ma non riuscì nemmeno ad avvicinarcisi più di tanto. Max scattò di lato piroettando sul corpo di Logan ormai destinato ad un volo di centonovanta metri.

La ragazza di Manticore fu però anche in quel caso velocissima e riuscì a fermare quel gesto folle prendendolo da dietro per la cinta dei calzoni e fermando Logan sul ciglio del tetto. Max portava i guanti, li portava da quando il virus iniettatole a Manticore da Madame Renfroe causò per due volte la quasi morte di Logan, solo per aver sfiorato la sua pelle con quella di lei.

Non riusciva a crederci, non riusciva a credere che Logan avesse tentato una cosa simile, era ammutolita e terrorizzata. Terrorizzata come non lo era mai stata prima.

« Max… », disse Logan quasi sottovoce, « Dovevo farlo… », ma non aveva il coraggio di guardarla in volto.

« Dovevi farlo?! », domandò stupita Max, il suo tono era incredulo ed arrabbiato, oh sì molto arrabbiato, « Potevi saltare giù… metterti una canna di fucile in bocca… prendere una pillola di cianuro, impiccarti, andare a duecento all’ora contro un muro, invitare a cena White… posso andare avanti fino a domani mattina ad elencarti tutti i modi per suicidarti che mi vengono in mente! »

« Non capisci Max… », era stanco e aveva fallito.

« Non capisco? Tu non capisci, se vuoi ammazzarti accomodati! Ma questo è il modo più perverso che possa immaginare… è da malati. »

« No Max… non volevo uccidermi, non capisci… »

« No allora proprio non capisco, se uno si spara alla tempia e dice di non volersi uccidere o è matto o sta usando una pistola ad acqua… ed io… io non sono caricata a salve ».

« Potresti essere guarita Max. », disse alla fine Logan.

Un gelo calò tra i due, un silenzio così tangibile e pesante da poter essere toccato con mano.

Passarono attimi lunghissimi, senza che nessuno dei due avesse pronunciato parola. Poi, « E se ti fossi sbagliato? », domandò Max, ancora un po’ confusa. Il suo tono però era pacato, affettuoso e triste.

« Se fossi ancora infetta? Tu saresti morto, quassù… e io sarei rimasta sola ».

Logan sollevò lo sguardo a quell’ultima frase pronunciata da Max. Lei lo stava guardando con gli occhi pieni di lacrime, con quel suo broncio che da sempre ispirava a Logan un forte, intensissimo senso di protezione verso quell’essere perfetto.

« …a me non ci pensi? Che avrei fatto io se tu te ne fossi andato? », e scoppiò in lacrime. Lacrime liberatorie. Erano mesi che le teneva dentro, che le soffocava, che soffocava ogni minimo sentimento per non perdere di vista la causa. Ma quella sera diede libero sfogo alle emozioni, davanti a lei c’era Logan, un uomo disposto a rischiare la vita solo per dimostrare il suo amore.

“Pazzo”, pensò Max, “gli uomini sono tutti matti”.

« Ti avevo promesso che ti avrei lasciata in pace se acconsentivi a quest’ultimo incontro e così ho intenzione di fare… », disse Logan, rassegnato.

« Ti amo Max… » e dette le ultime parole si voltò e s’avviò verso la finestra per rientrare nello Space Needle.

« Stai zitto… », singhiozzò, « Se te ne vai giuro che ti prendo a calci… e poi devi ancora dirmi di White ».

In quel preciso istante Logan non vide una macchina perfetta geneticamente modificata per il combattimento, ma una ragazza di ventidue anni spaurita e fragile.

Avrebbe voluto abbracciarla…

CAPITOLO… (un po’ di tempo prima)

Era una bella giornata quella che si parava davanti ad Ames White. Aveva volato tutta la notte per raggiungere la destinazione, il posto in cui era stato deciso di istituire il nuovo Conclave. Il giorno stesso in cui ricevette l’ordine di presentarsi, come membro particolare della Famiglia, White fece trasferire anche X6-787 e X6-809 nel “centro di riabilitazione”, come lo chiamavano i confratelli. In realtà era più un parcheggio per i familiari che non avevano passato la prova o non avrebbero potuto a causa di caratteristiche genetiche spurie. White ci rinchiuse suo fratello C.J. in uno di quei posti, dopo che fuggì e dopo che tradì lui per la seconda volta… esattamente come fece suo padre Sandeman nei confronti della Famiglia. Ames cambiò persino nome per lavare l’onta del padre, e scelse il cognome White, per purificarsi dall’infamia.

L’auto che portava White fece il suo ingresso nel viale attraverso il cancello in ferro battuto e sorvegliato dalle gabbiole laterali da quattro familiari. Le telecamere seguivano silenziose l’auto avviarsi verso il centro della tenuta.

Come in un campus esclusivo, per famiglie esclusive, tutti gli studenti portavano la divisa scolastica, un completo blu scuro con giacca, pantaloni camicia bianca e cravatta per i maschi e giacca, gonna, camicia bianca e calzini blu per le femmine. Tutti quanti portavano sul petto ricamato il simbolo caduceo.

White osservava tutti questi ragazzi dirigersi nelle varie palazzine, fare ginnastica all’aperto e non poteva non andare con la mente a suo figlio Ray. Già Ray, rapito da X5-452, ormai erano più di due anni che non aveva più notizie di suo figlio. Nutriva grandi sogni per quel bambino, sarebbe stato il suo modo di purificarsi agli occhi della famiglia. Ma X5-452 lo rapì durante la Prova, così White non riuscì mai a sapere se l’avesse superata o fosse morto a causa del Kariff, del sangue del serpente introdotto nel suo corpo. Ma questo non era il momento per pensare a suo figlio, lo avrebbe fatto quando X5-452 sarebbe finita nelle sue mani e finalmente avrebbe esercitato su di lei tutta la sua raffinata arte coercitiva.

All’ingresso della grande tenuta, lo attendevano due persone, la sacerdotessa della setta, Paula e il Gran Maestro Jakob. Erano vestiti di scuro, entrambi con cappotti di lana. Entrambi seri in volto. White capì che non sarebbe stata una visita tranquilla quella che lo aspettava.

L’auto si fermò proprio davanti alla scalinata d’ingresso, l’autista scese e velocemente aprì lo sportello posteriore. White uscì dall’auto leggermente preoccupato, ma non lo avrebbe mai dato a vedere, nemmeno se fosse stato disperato. Aveva una soglia del dolore, anche interno notevolmente alta.

« Fenestol », dissero Paula e Jakob non appena White si avvicinò loro.

« Fenestol », rispose White.

« Sai già perché ti abbiamo convocato vero Ames? » domandò Jakob

« Mi è stato detto che ci sono delle novità riguardo Sandeman »

« Tuo padre… », Paula sottolineò col tono di voce la parola tuo « …è ancora vivo e forse sappiamo dove si nasconde ».

« Quell’uomo… ha smesso di essere mio padre molti anni fa. », la redarguì stizzito.

« Forse è meglio se ne discutiamo dentro… ci sono cose di cui vorrei parlare con te, Ames, anche a proposito di X5-452 ». Detto questo, Jakob invitò White e Paula ad entrare nella grande magione settecentesca.

CAPITOLO NOVE

Max aveva appena finito la doccia, la solita doccia fredda, a Terminal City l’acqua calda non era un lusso, era una leggenda. Ma già quando divideva l’appartamento con Kendra, le docce fredde erano all’ordine del giorno. Almeno però aveva una vasca da bagno, che di tanto in tanto riempiva con pentole e pentole d’acqua riscaldata sui fornelli della cucina economica. Ripensava a quei momenti. La moto parcheggiata nell’ingresso, i giri in bici con Original Cindy alla Jam Pony e Sketchy e le perle di saggezza di Herbal… persino Normal le mancava in quel momento. Si sedette di fronte allo specchio in accappatoio e allungando il braccio per arrivare alla spazzola lo vide. Un nuovo tatuaggio, proprio all’interno del polso destro. Lo guardava e non poteva credere a ciò che stava vedendo.

Era diverso da tutti gli altri, niente messaggi criptici in antico minoico, nessuno strano simbolo. Niente di tutto ciò. Quello che stava osservando in quel preciso istante era un numero di telefono. Max aveva avuto per tutta la vita, nascosto nel suo DNA un numero di telefono pronto per comparire… in quel preciso momento? Era folle.

Prese velocemente il cellulare e chiamò un numero in rubrica.

« Pronto? », la voce all’altro capo.

« Logan… sono io… »

« Max?… che succede? »

« Avrei… dovresti farmi un favore… »

« Sicuro, di che hai bisogno? »

« Dovresti controllarmi un numero di telefono… prendi nota: 00240206645234 »

« Vuoi sapere a chi appartiene? »

« Sì… ma non lo chiamare… ti spiegherò quando ci vedremo… appena sai qualcosa… »

« Ti chiamo subito tranquilla… ehi tutto bene? »

« Ancora non lo so… », poi sorrise, « Ma posso sempre diventare anche uno stradario… »

« Non capisco… »

« Lascia stare, chiamami ok? »

« Tranquilla… a presto Straniera ».

CAPITOLO UNO ZERO

Una giornata come tante alla Jam Pony, ragazzi che arrivavano dopo una consegna e altri che partivano con un pacco pronto per essere recapitato e con la ricevuta firmata. “Niente firma, niente corsa pagata”, era il motto di Normal.

In realtà molte cose cambiarono alla Jam Pony dopo che ci fu l’assedio della polizia e molti di loro vennero presi in “ostaggio” dai transgenici.

« Ehi tu, imbecille! La bicicletta la devi riportare intera, se usi una delle mie la devi riportare intera! », Normal continuava a sbraitare contro i dipendenti e stavolta il malcapitato era Druid.

« Non è stata colpa mia, quello scemo mi è venuto addosso, non si è fermato al semaforo », cercò di discolparsi il povero Druid.

« Oh bene allora nessun problema giusto? Sei assicurato e la tua assicurazione risarcirà i danni alla mia bicicletta! »

« Normal se qui avessimo la possibilità di pagarci l’assicurazione, il tuo lavoro sarebbe l’ultima cosa che uno sano di mente prenderebbe in considerazione ». Original Cindy, anche dopo che Max se ne andò per vivere a Terminal City continuava a lavorare alla Jam Pony, ma era lampante che ora ormai le cose andavano diversamente. Dal giorno dell’assedio, nessuno nominò più Max e Alec alla Jam Pony quasi volessero rimuovere un brutto sogno. Ma Cindy sapeva che molti lì dentro sentivano la mancanza di Max, persino Normal… ma non lo avrebbe mai confessato.

« Principessa, c’è giusto un pacco per te da consegnare urgentemente nel settore sei… forza beep beep beep muovi le chiappe! », disse Normal col suo solito tono fastidioso lanciando il pacco a Cindy, « Vai! Forza! Aria! ».

Era appena partita l’ultima corsa, le sette di sera scoccate da 15 secondi, Normal si apprestava a chiudere i registri delle consegne della giornata e avrebbe controllato se tutti quelli con le bici in affitto avevano riconsegnato il mezzo… possibilmente intero. Ma prima sarebbe andato all’ingresso e avrebbe chiuso con la saracinesca.

Stava sorseggiando del caffè mentre si avviava a chiudere l’ingresso, caffè di quello vero, che un amico wrestler gli mandò dal Brasile. Inserì la chiave nella serratura e tenendola girata azionò il motore che chiudeva la saracinesca.

Sì diresse verso il gabbiotto dove teneva i pacchi i registri e gli schedari e sempre sorseggiando il caffè si tolse l’auricolare col microfono che indossava tutto il giorno per ricevere le chiamate. Fece appena in tempo a sfogliare le prime pagine del registro quando improvvisamente: « Giornata fruttuosa Normal? »

Normal trasalì versando parte del caffè sul registro e macchiandosi la camicia lilla chiaro.

« Oh per tutti… », disse ansimando, « Ma che ti salta in mente? Vuoi farmi morire? »

« Debbo proprio risponderti Normal? », domandò ironica Max, seduta sul banco del gabbiotto dalla parte della ricezione dei pacchi.

« Che vuoi da me mostro? », domandò Normal mentre cercava inutilmente di pulirsi la camicia col fazzoletto che ogni tanto leccava.

« Sei un vero e fulgido esempio di tolleranza, sono onorata, anzi sono fiera di conoscere una persona come te! E lo dico dal profondo del mio cuore transgenico trapiantato ». Qualsiasi altra persona si fosse rivolta a lei con l’appellativo di mostro avrebbe passato un brutto quarto d’ora, ma non Normal. Stranamente, lui era l’unico cui permetteva di trattarla così. Forse era per avere ancora un legame con quel posto, chissà forse voleva far finta di lavorare ancora lì. Pensava di detestare la Jam Pony, di trovare Normal un mentecatto. Ma a ripensarci adesso, dopo tutto quello che era successo, quella vita normale e tutt’altro che appagante le sembrava distante anni e adesso le mancava terribilmente. Niente più pacchi, vita normale, birra al Crash… niente più di tutto ciò. Niente di niente.

Noi e voi. Tutto quello che c’era adesso: noi e voi.

In fondo perché no? Detto da Normal, mostro, era un po’ come rivivere quei momenti. La cosa era buffa e malinconica.

« Insomma, si può sapere che vuoi da un cittadino probo e onesto? » le domandò sistemandosi gli occhiali e ripassando il labbro superiore con la lingua con quel gesto che tanto la infastidiva.

« Ho bisogno di un favore ».

« Il tuo vecchio lavoro te lo scordi signorinella ».

« Normal, ti ho chiesto un favore, non una gogna », disse Max ironicamente, « Di tanto in tanto dovrò spedire dei pacchi in un posto, e saranno Original Cindy o Sketchy a consegnarli. Che ne dici? »

« Ok, va bene, nessun problema. Tutto pur di non rivedere qui quel tuo brutto muso transgenico », rispose Normal senza batter ciglio.

Il sorriso di Max illuminò tutto il garage, per un breve istante si sentì di nuovo a casa. “Che strano”.

« E non ti domandi cosa contengano i pacchi? »

« Non mi interessa, sarà sicuramente qualche schifezza da mostri… Ok? Va bene? Soddisfatta? E adesso sparisci, via da qui ragazzina, qui non ci lavori più, sei teppaglia, via via beep beep beep!! Aria! »

Max saltò giù dal bancone, soddisfatta come poche volte le era capitato nell’ultimo periodo. Se ne stava andando quando sentì il bisogno di voltarsi verso Normal.

« Normal… »

« Che c’è, che vuoi ancora? »

« Grazie… » gli disse. E fu un grazie sincero e schietto.

Normal la guardò con la testa leggermente reclinata in avanti ed incurvò un angolo della bocca, « Beh… ok… di nulla… », poi, un po’ imbarazzato si alzò in piedi, leccandosi il labbro superiore, e sistemandosi gli occhiali fece una domanda a Max, una domanda che avrebbe voluto farle già molti mesi prima:  « …sai mi chiedevo… sì beh… la bambina… »

« Quale bambina? » Max fu stupita della domanda.

« La bambina che ho fatto nascere durante l’assedio della Jam Pony… come sta? »

Max sorrise: « Sta bene, è tra gente che la ama, ed è bellissima »

« Bene, bene, ehm… sì bene sono contento », ma non aveva ancora finito, « …e come si chiama? »

Max guardò Normal divertita, ma c’era sincero interesse in quelle domande.

« Si chiama Reagan ».

Normal non trattenne lo stupore, ed un lampo di fierezza balenò nei suoi occhi, « Reagan… l’ha chiamata come me ».

« Beh Normal… o come te o come la protagonista de L’Esorcista. Ho sempre detto alla madre che la scelta di quel nome era infelice » disse Max con ironia.

« Ah-ah… divertente, davvero… un vero numero di Cabaret », poi tornando in sé, « e adesso sparisci, sei solo teppa, via di qui aria, via!! Raus! »

Erano mesi che non la vedeva, che non le parlava. Ma in quel momento aveva capito, anche Normal, che gli mancava. Nonostante tutto rimaneva un fedelissimo sostenitore repubblicano.

Beep! Beep! Beep!

Anche Normal quella sera tornò a casa felice.

Max era uscita dalla Jam  Pony da qualche minuto, ma rimase lì ferma per un po’ ad osservare quel posto che aveva tanto detestato. Poi prese il telefono e chiamò:

« Logan? Sono io, per quella roba di cui hai sempre bisogno… è tutto sistemato. Non dovrai più pensarci. Ciao ».

Sì fu proprio una bella serata.

CAPITOLO UNO UNO

Quando il velo della morte ricopre la faccia della terra, la salvezza sarà portata da colei il cui potere è nascosto”

“Avvento”

Sebastian dopo mesi di ricerche aveva questa parola in più. Una delle tante nascoste tra le rune che comparivano sul corpo di Max. Questa però aveva qualcosa di speciale. Questa parola si sposava con l’unica frase decifrata nei due anni che seguirono la comparsa dei messaggi.

Avvento”.

L’avvento di cosa? Di Max? o di qualcosa di terribile? Era l’avvento che avrebbe salvato tutti o che avrebbe condannato tutti? Non c’era niente di definito, niente di realmente concreto, sembrava di leggere dei passi dell’Apocalisse sulla Bibbia. Ogni interpretazione era corretta o sbagliata alla stessa maniera. E se fosse stata proprio Max il pericolo? Questo era un pensiero che Sebastian avrebbe tenuto per sé, un uomo innamorato non avrebbe mai ragionato lucidamente su questioni filosofiche che riguardavano la luce dei propri occhi. Sebastian non poteva ridere, ma in quel momento sapeva che stava ridendo.

Aveva due cose su cui lavorare, Manticore e la Setta. Entrambi i “club” vantavano tra i loro iscritti una persona: Sandeman. Entrambi i club avevano discendenti di Sandeman tra le loro fila. Ed entrambi i club seguivano il potenziamento genetico, l’uno con l’uso della scienza, l’altro con la selezione genetica protratta per millenni. E c’era “l’Avvento”.

C’era un riferimento esplicito, se la traduzione cui erano giunti lui e Logan era corretta, su qualcosa che Max ancora non aveva rivelato. Volendo rimanere superficiali Max possedeva un potere in grado di fermare il disastro biblico. Ma nessun riferimento a quale tipo di potere potesse avere nascosto, era stato individuato nelle rune che ancora non erano state tradotte.

Sebastian era convinto di una cosa però, tra quei tatuaggi c’era la “stele di Rosetta”, c’era la chiave per decifrare il mistero che avvolgeva Max. Probabilmente ancora doveva rivelarsi, ogni mese comparivano nuove rune in nuovi punti del corpo. Aveva intuito che molte delle “frasi” erano comparse su punti Chakra, punti del corpo cioè che da millenni si pensa siano punti di origine o di liberazione per energie mistiche. Sandeman probabilmente intendeva consegnare a Max una specie di libretto di istruzioni per utilizzare il proprio corpo per lo scopo cui era stato creato. Ma sapeva che anche questa cosa sarebbe stato meglio se l’avesse tenuta per sé. Almeno fino a quando non ci avesse capito di più.

Grazie alla documentazione che Logan gli aveva fornito su Max, Sebastian aveva cominciato a lavorare su un programma musicale per convertire sequenze di DNA in suono. Pensava fosse un modo per capire meglio le persone. Si era messo in testa che la natura era solo portatrice di armonia pandemica, qualsiasi cosa avesse “stonato” nel suono di un particolare filamento di DNA sarebbe stato sintomo di “malfunzionamento”.

Il programma era ancora in fase di sviluppo, ma aveva dato buoni risultati. Aveva un amico, un musicologo di Rochester, che ultimamente stava sviluppando al MIT assieme ad un professore di matematica di Oxford, un sistema di elaborazione matematica incrociata a teorie sulla meccanica quantistica.

Sebastian stava integrando le teorie e le tecniche che conosceva grazie al fitto scambio di idee coi ragazzi del MIT, col suo programma musicale in grado di tradurre il DNA.

Volle fare una prova con una sequenza di DNA di Max, un piccolo filamento.

Inserì i dati nel computer, utilizzando un laser puntato sul suo occhio per poter scrivere e fece partire il programma.

Quello che udì in quel preciso istante Sebastian fu qualcosa di così particolare che gli fece accapponare la pelle. Provò un nuovo filamento stavolta più lungo e di diversa natura. E la cosa ancora più incredibile accadde: udì la stessa identica “musica”.

Sebastian continuò a inserire dati diversi nel suo computer per diverse ore ed ogni volta la melodia era la stessa.

Quello che Sebastian stava udendo da ore era qualcosa che conosceva bene: il DNA di Max stava suonando Il Flauto Magico di Wolfgang Amadeus Mozart.

CAPITOLO UNO DUE

La pioggia quella domenica batteva incessantemente, alla tv davano l’ennesima replica di Star Trek durante lo show mattutino. Sotto in sovrimpressione passavano le notizie in tempo reale: gli aggiornamenti sulla guerra in Korea del Nord, l’imminente passaggio della cometa C/2002 S5 DEB, l’ennesimo crollo delle Borsa di New York e, tanto per cambiare, l’annuncio di possibili blackout nel weekend. Oltre a tutto ciò si accennava ad una possibile proposta di legge da parte del Senatore McKinley per istituire delle specie di zone di contenimento e raggruppamento dei transgenici sparsi per tutti gli Stati Uniti d’America. A Logan questo suonava più o meno come l’istituzione e la legalizzazione di nuovi campi di concentramento, per la nuova razza inferiore, nuova di zecca, con la differenza che la razza inferiore era in realtà superiore.

Non gli servì altro per decidere di inserirsi in onda con un nuovo attacco di Solo Occhi. Appoggiò la tazza del caffè, un caffè recapitatogli da Original Cindy da parte di Max che gli disse provenire direttamente dal Brasile, si tolse gli occhiali e si sedette di fronte alla telecamera. Organizzò i pensieri per qualche attimo, fece un bel respiro e “Ok si parte” si disse e diede il via al collegamento.

«Questo è un bollettino video di Streaming Freedom. È un collegamento clandestino che durerà sessanta secondi. Non può essere localizzato né interrotto ed è la sola voce libera rimasta in città.  Senatore McKinley, mi rivolgo a lei, lei che si erge a paladino della razza umana e discrimina chi come lei ne fa parte. I transgenici portano un codice a barre che dice “Made in America” e se lei e tutti quelli come lei decideranno di ignorare questa semplice verità volteranno le spalle al proprio Paese, a tutti coloro che hanno pagato, tramite le tasse del nostro governo, per indirizzare i fondi in questo progetto. Abbiamo creato una nuova vita e come ogni genitore degno di questo nome, abbiamo il dovere di far crescere e prosperare i nostri figli. Ci pensi bene Senatore, sono anche figli suoi. Pace e Chiudo.»

A Terminal City i bollettini di Solo Occhi venivano seguiti con attenzione, c’è chi li approvava e chi, come Mole li snobbava.

«Un bianco uomo americano annoiato, probabilmente pieno di quattrini che pensa di pulirsi la coscienza concedendo a noi povera feccia, sessanta secondi del suo fottuto tempo. Sei vomitevole amico. Non abbiamo bisogno della tua elemosina», disse rimettendosi il sigaro in bocca. Luke e Dix lo guardavano, Luke infastidito, ma a modo suo, quindi non si capiva se lo era o meno, mentre Dix non mosse un muscolo, ma aveva quella tipica espressione di quello che sta per essere convinto di quanto ha appena udito. Ed erano di Mole le parole che avevano colpito nel segno.

Max entrò nella grande e caotica sala di controllo, molti monitor, computer e apparecchiature varie erano state aggiunte in quei mesi, tutto hardware raccapezzato di qua e di là da Luke e i suoi, risistemato e funzionante… finché non si sarebbe guastato definitivamente, nel qual caso, Luke avrebbe ricominciato a spulciare i molti laboratori abbandonati presenti a Terminal City.

«Bene dobbiamo organizzare i turni di servizio per il prossimo mese stasera durante il consiglio, ho una  lista delle cose che servono nella zona est. Al momento sono senza acqua e senza elettricità. Entro quarantotto ore dobbiamo dar loro o l’una o l’altra cosa. Chi ci pensa?».

Max aveva in mano una lista scritta su di un foglio tutto sgualcito. Era la lista della spesa come veniva chiamata, ogni mese un gruppo appartenente ad ogni settore di Terminal City faceva il giro da ogni abitante per redigere una lista appunto di tutte le cose non funzionanti o che necessitavano.

Ogni fine mese, il consiglio si riuniva e in base all’ordine del giorno provava a risolvere i vari punti. Max faceva parte del consiglio dall’inizio da quando cioè si oppose come leader al detective Ramon Clemente. Gli altri partecipanti erano Mole per la sicurezza, Dix per la gestione delle risorse, Luke per le riparazioni e costruzioni. Poi esistevano altri rappresentanti per i vari gruppi di transgenici e transumani. In totale il consiglio era composto da una trentina di persone.

«Ci penso io Max, mando due dei miei a vedere che manca poi vediamo di risolvere la faccenda nel più breve tempo possibile.»

«Bene», annuì soddisfatta Max.

«Sì bene, e già che ci sei Luke senti un po’se il nostro amico Solo Occhi ci passa un po’ di contanti che ogni tanto qui vorremmo anche mangiare una pizza a domicilio», disse Mole togliendosi il sigaro di bocca con due dita.

«Che vorresti dire?», domandò Max.

Mole le si avvicinò, quasi parlandole in bocca a denti stretti, «Dico che se vuole fare davvero qualcosa per noi la faccia concretamente, che qui non abbiamo bisogno di sermoni pro-mostri».

«Vuoi che lo aggiunga come ordine del giorno per stasera? Solo Occhi, chi gli tappa la bocca?»

Dix sorrise, Mole se ne accorse voltandosi e sbuffando verso di lui. Ma non disse nulla, rimise il sigaro in bocca e facendo un cenno a due dei suoi sbirri uscì dalla grande stanza.

Max lo guardò preoccupata. Poi rivolse lo sguardo a Dix il quale ricambiò serio.

«La pensi anche tu come lui?», gli domandò Max.

«Mole parla per molti di noi, dovresti prenderlo più sul serio Max».

Max non rispose, non disse nulla. Si avvicinò a Dix e gli consegnò la lista, «Fanne delle copie a sufficienza per tutti», disse seria, e se ne andò.

CAPITOLO… (un po’ di tempo prima)

La grande sala della villa settecentesca nella quale si trovavano seduti Ames White, Paula e Jakob era adornata con arazzi, dipinti alcune sculture e molti candelabri. Tutte le raffigurazioni presenti avevano almeno un serpente rappresentato, i candelabri erano in ferro battuto e rappresentavano il simbolo caduceo, il bastone di Hermes con il serpente avvinghiato ad esso. Dall’enorme finestra di fronte al tavolo al quale erano seduti i tre familiari si potevano vedere delle montagne molto alte ed innevate. Il cielo era grigio e bianco e da tutte le persone che c’erano all’esterno non si udiva un suono.

« Ames, il conclave pensa che sia quasi giunto il momento », disse Jakob incrociando le dita sul tavolo.

White posò il bicchiere con whisky senza ghiaccio, si leccò leggermente le labbra e rivolse lo sguardo interrogativo a Jakob: « Non sarà un po’ presto? 452 non è ancora nelle nostre mani ».

« Non sta a noi decidere il momento. Ciò che deve accadere accadrà comunque. » specificò Paula rivolgendosi a White.

« Sì, ma quello che voglio dire è che se Sandeman ha realizzato veramente ciò che pensiamo allora l’esistenza stessa di 452 sarà un pericolo per ciò che ci sta attendendo da cinquemila anni ». E senza voltare la testa, White guardò dritto negli occhi Paula.

« Ames, tu ti sei assunto la responsabilità, e sappiamo anche che ogni transgenico di Manticore è immune al Kariff, quindi non è solo 452 ad essere pericolosa », disse Jakob sistemandosi sulla sedia.

« Con il dovuto rispetto, 452 a differenza degli altri transgenici non solo è immune, ma non ha nemmeno mai dimostrato i sintomi dell’avvelenamento. 452 è speciale. È lei la cosa da catturare e studiare ».

White fu molto preciso, la sua voce lasciò trapelare una leggera ansia, ma subito si contenne nuovamente ritornando il solito freddo White.

« Allora caro Ames, sarà meglio che ci porti questa transgenica, nel più breve tempo possibile », Paula pronunciò quella frase con un tono saccente e fastidioso.

White la guardò mordendosi le labbra, poi si alzò e disse: « I due X6 a che punto sono? »

Paula socchiuse gli occhi, inarcò le sopracciglia e sospirando, « Sono pronti, possiamo mandarli a Seattle già da stasera ».

« Ottimo », disse compiaciuto e tranquillizzato White, e proseguì, « È comunque sottinteso che sarà mia responsabilità la cattura di 452, non voglio ingerenze da parte di squadre esterne, l’ultima volta la Falange è stata un fiasco totale ».

« Come vuoi tu Ames, nel bene e nel male sarà tua responsabilità… e adesso per favore siediti perché c’è la questione Sandeman da discutere. », Jakob invitò White a sedersi con un gesto della mano.

CAPITOLO UNO TRE

Max si stava preparando nel suo appartamento, per il consiglio di Terminal City che si sarebbe dovuto tenere tra poco più di un’ora. Stava indossando gli scarponcini quando il telefono squillò.

« Pronto? »

« Ciao Straniera, ti disturbo? », domandò Logan, pareva di buon’umore.

Max mise il vivavoce e continuò a legare i lacci degli scarponcini, « Mi sto preparando per il consiglio di stasera, hai qualche novità per me? »

« In effetti sì, il numero che mi hai dato non esiste…  »

Max aggrottò la fronte e fece una piccola smorfia con la bocca, « E allora perché ho questo numero? »

« Beh ho detto che il numero non esiste perché ho seguito i canali che segue la polizia per rintracciare i numeri di telefono, ma c’è la possibilità che sia un numero “ombra”, uno di quei numeri secretati da organizzazioni governative ed utilizzati solo per contatti sicuri. »

« Ah… », disse Max quasi disinteressandosi, « quindi se dovessi chiamare quel numero mi domanderanno anche la parola d’ordine? »

« Non lo so, non mi hai ancora detto chi te lo ha dato ».

« È stato Sandeman… quel numero mi è comparso poco tempo fa sul polso ».

« Stai scherzando? »

« Certo, noi qui la sera del consiglio ci prepariamo un numero e poi spariamo barzellette a raffica ». Il suo solito tono sarcastico.

« Max… », il tono di Logan era quasi paterno in quel momento.

« Adesso devo andare, domani vengo da te… fatti trovare ».

« Ok disdico l’hotel ad Aspen… »

Max riagganciò e sorrise. Prese il suo giubbotto di pelle ed uscì dall’appartamento. Quella che l’aspettava non era una delle serate più tranquille. Detestava le questioni politiche, ma a quanto pareva Terminal City era una questione di politica interna più di quando si sarebbe mai immaginata.

CAPITOLO UNO QUATTRO

La sala del consiglio era un grande auditorium, utilizzato prima del disastro biochimico che sconvolse il quartiere di Seattle in cui risiedevano la maggior parte delle ditte farmaceutiche e fabbriche di prodotti chimici, come sala conferenze.

Sulle pareti, quasi ovunque comparivano graffiti, macchie d’umidità, persino dei grossi buchi fatti da qualche teppista tanto per passare il tempo, prima dell’arrivo dei transgenici. Le poltroncine, che un tempo erano state di velluto rosso, adesso apparivano come tristi rimasugli di importanti attività passate, sporche, strappate e alcune divelte. L’auditorium aveva la forma di una classica aula universitaria, come un teatro romano, con in basso al centro la cattedra. In quel caso erano una serie di tavoli di dimensioni e fogge differenti accostati assieme per formare un tavolo unico ed enorme in cui ricevere tutti i delegati principali “Anche il tavolo che utilizziamo è composto di tanti tavoli tutti diversi”. Gli altri, i rappresentanti delle varie etnie e i secondi dei delegati assistevano al dibattito dalle poltrone.

Ancora non c’era l’elettricità in quel posto, decisero di lasciarlo per ultimo in una delle prime riunioni, la priorità andava agli abitanti di Terminal City. Costruire un generatore diesel apposta per dare corrente ad un luogo che veniva utilizzato solo una volta al mese parve uno spreco a tutti. Quella sera vennero preparate più di centocinquanta torce, diverse lampade a petrolio e una quantità smisurata di candele. Tutto appariva molto gotico, se non fosse che i partecipanti in genere parlavano di problemi concreti come la sopravvivenza, il cibo, l’acqua e le prime necessità in genere. Proprio alle spalle del grande tavolo composto, c’era la grande lavagna ormai quasi interamente distrutta dai vandali, e sopra di essa a coprire quasi l’intera parete era appesa la bandiera della Freak Nation dipinta da Joshua un paio di anni prima e sollevata da alcuni di loro il terzo giorno di assedio della polizia e della guardia nazionale. Sembrava passato un secolo, pensava Max.

Nella grande aula c’era il solito brusio, pre-riunione, i vari membri delle delegazioni stavano arrivando e s’accingevano a sedersi al tavolo. Un computer portatile era al centro del tavolo e il suo utilizzatore, Luke, registrava ogni mozione approvata, respinta e rimandata.

Il posto riservato a Max era nella seconda porzione di tavolo da destra con spalle alla platea, vicino a lei c’era Joshua come rappresentante dei Transumani. Alec seguiva sempre dalle poltrone, ma il suo voto andava sempre a Max. Al centro oltre Luke sedeva Dix, poco più in là Mole con due dei suoi. Mole aveva sempre tre voti sicuri nel consiglio perché la questione sicurezza superava tutto quanto. Era l’unico rappresentante col divino stato di trinità.

« Signori, confermo aperta la seduta, ventiduesimo consiglio di Terminal City » proclamò solennemente Dix. « Ci sono vari ordini del giorno di cui discutere, mi pare che la questione acqua ed elettricità per la zona est sia stata risolta al cinquanta percento grazie al pronto intervento di Luke e dei riparatori, quindi archivierei questo punto… », un forte brusio d’approvazione proveniva dalla sala, « …passiamo invece a qualcosa di più urgente, ci sono due X6 in stato di fermo per volere di Mole… » adesso il brusio si faceva più confusionario, alcuni a favore altri contrari, « … lascio la parola a Mole, il nostro responsabile della sicurezza per illustrarvi meglio la questione, Mole? ».

Il grosso uomo-rettile si alzò in piedi, « Vengo subito al punto: X6-787 e X6-809, conosciuti come Bullet e Fixit, sono due agenti al servizio di Ames White e la sua setta, quindi verranno sottoposti ad interrogatorio per avere informazioni sul signor figlio di puttana. » Detto ciò Mole fece un ampio sorriso in direzione dei partecipanti soffermandosi su Max.

« E io dico… » balzò in piedi Max, « Che quei due ragazzi, che ho personalmente aiutato a fuggire dagli uomini di White, due anni fa sono solo due fratelli in cerca di riparo visti gli ultimi avvenimenti. »

« In cerca di riparo? AH! » Mole era strafottente, ma sicuro di sé, « Quei due, cara la mia piccola gatta, sono due fottuti bastardi collaborazionisti. E come tali saranno trattati. Argomento chiuso. »

« Chiuso? Ma chi ti credi di essere? » Max stava palesemente perdendo il controllo, una cosa mai avvenuta prima. Joshua la teneva per un braccio cercando di farle mantenere la calma.

« Siamo qui per discutere civilmente, per quanto ci possa essere consentito dalla situazione… » interruppe Dix « Max, ti prego… » facendo cenno di calmarsi.

Max tremava leggermente, la fronte appena imperlata di sudore. Sentiva vampate di calore venirle dalla bocca dello stomaco. “Oh no… non adesso… fa che non vada in calore proprio adesso”

« Ho passato più di un anno in Iraq, ho condotto interrogatori, su talebani, collaborazionisti di talebani e ufficiali delle forze speciali dell’MI6. Non mi serve il tuo consenso per capire chi o cosa mi si para davanti. » Ringhiò Mole puntandole le due dita che tenevano il sigaro.

« Beh, forse hai dimenticato Sage, mister-macchina-della-verità… e di lui che mi dici? » Continuava a tremare. Joshua cominciava a preoccuparsi. Di tanto in tanto lanciava un’occhiata dietro di sé in direzione di Alec il quale la ricambiava interrogativo e un po’ preoccupato anche lui.

« Oh no, ma lo ammetto, lo volevo semplicemente far fuori. È vero… » disse Mole platealmente allargando le braccia e guardando tutti « … lo ammetto. Volevo uccidere a sangue freddo un ordinario. Sono da biasimare? Quanti qui dentro mi condannerebbero? Quanti là fuori ci farebbero secchi solo vedendoci? » Ci fu qualche brusio, ma troppo pochi per tranquillizzare Max.

« Ho l’esperienza, e il potenziamento genetico necessario che mi consentono di capire chi e come abbia subito manipolazione mentale per coercizione, droghe o tortura psichica » disse sempre rivolgendosi a Max. Dix stava annuendo e Max lo notò.

«  Sono solo… ragazzi Mole ». Disse con un filo di voce.

« No, ragazzina, non lo sono, nessuno di noi lo è mai stato. Quei due… » disse indicando un lato dell’aula dove Bullet e Fixit erano incatenati con un cappuccio in testa, « … sono il tuo peggior nemico in questo momento, e io, per quanto la cosa ti schifi, sono l’unico che ti è veramente amico » il tono di Mole era cambiato. Non era più un tono di sfida, pareva sinceramente preoccupato per lei. A Max tutto ciò la confondeva.

Ad un certo punto smise di udire i suoni chiaramente. Tutto le pareva ovattato, la vista cominciò ad annebbiarsi e sentì la pelle bruciare. Quando Joshua vide gli occhi di Max rivoltarsi all’indietro capi che qualcosa non andava. Scattò in piedi gridando.

« Max!! MAX! » ma non ebbe risposta. Max stava tremando, come quando le venivano le crisi da assenza di serotonina, ma erano ormai mesi che non le aveva più ed aveva smesso di far uso del triptofano. Joshua si voltò verso Alec, il quale saltò un po’ di file e corse verso l’amico.

« Max! ma che ha? » domandò a Joshua. Tutti gli altri membri del consiglio si alzarono in piedi preoccupati e fecero capannello attorno a Max. Solo Mole rimase in piedi al suo posto. Ma era preoccupato anche l’uomo rettile. Poi si voltò in direzione dei due  prigionieri incappucciati. Vide uno strano movimento, impercettibile ad occhio umano, ma pareva che tremassero anche loro. Anzi no, loro stavano vibrando. Poi guardò ancora in direzione di Max la ragazza stava sempre peggio, tutti intorno a lei erano agitati e ognuno diceva la sua. Mole rivolse ancora lo sguardo verso Bullet e Fixit. Rimise il sigaro in bocca. E si diresse verso di loro a grandi passi, prese il fucile a pompa che aveva appoggiato alla parete ed una volta giunto di fronte ai due serie X6 tolse loro il cappuccio. Quello che vide Mole lo inquietò a tal punto da rimanere per un attimo spaesato. I due ragazzi contraevano i muscoli del volto in un modo talmente innaturale da deformare orrendamente i loro visi. Mole non era certo religioso, ma se lo fosse stato avrebbe sicuramente fatto il segno della croce. Non ci pensò due volte, e puntò il fucile alla testa di uno dei due. In quel momento Dix e Alec si voltarono verso Mole e videro per un attimo i volti dei due ragazzi.

Mole premette il grilletto due volte, un colpo per Bullet ed uno per Fixit.

La sala piombò nel silenzio più totale. L’eco dei colpi riecheggiava ancora nel grande auditorium. E tutti in quel momento stavano osservando la scena. Due corpi senza più faccia incatenati ma accasciati al suolo e Mole col fucile appoggiato ad una spalla che tirando una boccata dal suo sigaro, voltandosi disse: « Aggiornato l’ordine del giorno numero due. »

Max aveva smesso di tremare, ma era ancora priva di sensi.

Alec e Joshua decisero che era meglio portarla via dall’aula. Nell’istante in cui decisero di sollevarla, sentirono cadere al suolo qualcosa con un rumore metallico.

Alec si chinò per vedere cos’era e raccolse uno strano oggetto con una forma conica molto allungata lungo circa otto centimetri. L’oggetto era completamente ricoperto di sangue. Alec guardò Joshua. Joshua stava tenendo Max in braccio, appoggiata sulle sue ginocchia, la mano sinistra sotto al collo per sorreggerla. Poi si accorse di qualcosa, sentiva la mano… bagnata e istantaneamente fiutò l’odore del sangue. Ritrasse la mano lentamente e tutti videro la mano di Joshua insanguinata.

Alec fece alzare Joshua in fretta e furia « Andiamo Josh, svelto » disse guardandosi attorno.

«  Dove… dove andiamo Alec? » domandò preoccupato il grosso uomo-cane.

« Dove vuoi andare? La portiamo nel suo appartamento e poi vediamo cosa fare… dai forza sbrighiamoci amico ».

CAPITOLO UNO CINQUE

Logan stava preparandosi la cena, Luke gli fece avere un vecchio microonde. E Logan sapeva bene che il microonde è il miglior amico dell’uomo scapolo. Fu molto felice quando glielo regalò assieme al server IT e i processori C-34 che gli servivano per il suo lavoro. Ma nessuno, nemmeno tra la gente di Max, sapeva che Logan era Solo Occhi, a parte Alec. Già Alec… il motivo per cui Max lo lasciò. Era un suo simile, serie X5, Logan sapeva bene di non essere alla sua altezza, ma aveva sperato con tutte le sue forze di poterla riconquistare un giorno. Nonostante tutto non ha mai odiato Alec per averle portato via la donna dei suoi sogni. Forse dentro di sé sapeva che tra loro due non avrebbe mai potuto funzionare, a maggior ragione col virus di mezzo. Quel maledetto virus che impediva a Logan e a Max anche solo di sfiorarsi, se fosse accaduto, il risultato sarebbe stato la morte quasi istantanea di Logan. Ma c’era sempre quella speranza, là in fondo ed ogni tanto Logan riapriva quel cassetto per poter sperare un po’.

I maccheroni ai quattro formaggi erano pronti e fumanti nella loro bella confezione da microonde. Il profumo era più o meno quello di formaggio rancido e l’aspetto colloso della pasta lo stava facendo desistere. Lui che era abituato a mangiare verdure fresche ed arrosti cotti in forno. Ma doveva sopravvivere… prese il vassoio, lo portò sul tavolo e si sedette. Si fece coraggio e inforcò il primo boccone.

In quell’istante si spalancò la porta. Era Alec.

« Logan! Devi venire con me… »

Logan lo guardò stupito e ancora ricurvo sul vassoio di maccheroni, col boccone in bocca, fece un cenno con gli occhi e la mano chiedendo cosa fosse successo di così urgente ché qualcuno osava disturbare il suo ricco pasto quotidiano.

« Si tratta di Max! »

La parola magica. Logan mandò giù il boccone intero, si alzò velocemente e altrettanto velocemente prese al volo il giaccone, fece uscire Alec di casa e lo seguì a ruota noncurante dei droni volanti che avrebbero potuto esserci in quel momento.

Logan si diresse verso la propria auto ma Alec lo fermò « No, di qua Logan, montiamo su questa » disse, indicando un vecchio e scalcinato Suv.

Montarono entrambi in auto sul sedile posteriore. Davanti c’erano altri due serie X che però Logan non conosceva.

« Questi sono Rod e Jynx », disse Alec presentandoli. Logan fece un cenno con la testa ed una specie di sorriso stiracchiato. Poi si rivolse ad Alec mentre l’auto partiva.

« Che succede? »

« Max, amico… ha avuto una specie di crisi, come quando faceva uso di triptofano. »

« Pensavo fossero terminate… » Logan era visibilmente preoccupato. E ripensò a quella sera con Max sullo Space Needle. Se le crisi erano tornate allora, com’era probabile il virus era attivo più che mai, il suo corpo non era stato in grado di riparare il problema neurologico, probabilmente non aveva anticorpi abbastanza potenti da debellare o inibire il virus. Max quella sera gli salvò realmente la vita. Logan si senti un vero imbecille in quel momento.

« Poi ha perso questo » disse Alec a Logan mostrandogli lo strano oggetto che era caduto dal collo di Max.

Logan non riusciva a credere ai propri occhi. Quello che stava guardando in quel momento era il neuro potenziatore che Max si impiantò per combattere contro gli uomini della serie Rossa. Era tecnologia sudafricana. Max rischiò di morire, e di bruciarsi in poche ore. Potenziare un motore già sovralimentato non era stata una buona idea, come disse Sebastian a suo tempo. E furono proprio Logan e Sebastian a salvarle la vita, grazie ad una scarica col defibrillatore che provocando un cortocircuito nel suo cervello inibì l’impianto. Purtroppo nessuno era in grado di rimuovere l’innesto, una volta impiantato si andava a saldare col midollo spinale e col cervello. Scheggia di guerra la chiamò Logan. Non pensava lo avrebbe più rivisto, e intatto per giunta.

Logan si infilò un guanto di lattice, prese tra le dita l’oggetto e lo osservò attentamente, c’era ancora del sangue raggrumato, “il suo sangue” pensò Logan.

« È tecnologia sudafricana, la utilizzarono con la cosiddetta serie Rossa per impossessarsi di esemplari vivi di Manticore e per avviare un progetto simile… ma andò loro male. »

« Ma perché Max lo aveva? » domandò incuriosito e un po’ preoccupato Alec.

« Storia lunga… » poi sorridendo e rivolgendo lo sguardo ad Alec « … ma se questo coso è uscito dal corpo di Max è solo una buona notizia. »

Alec non parve molto convinto « Ah sì? Beh amico, non mi pareva un fiore quando quel coso le è uscito dalla testa… »

L’auto fece uno strano e lungo percorso, per arrivare fino ad una specie entrata fognaria murata. Alec e Logan scesero dall’auto, che ripartì sgommando e si avvicinarono al muro. Alec bussò in un modo che a Logan parve un segnale. La muratura che chiudeva il passaggio era soltanto posticcia, due transumani erano a guardia di quel passaggio verso l’interno.

Probabilmente veniva usato per entrare ed uscire indisturbati da Terminal City. Perlomeno quelli di loro che lo potevano fare… come i serie X.

« Ci sarà da camminare un po’ Logan, non far caso al disordine » disse col suo solito tono scherzoso Alec.

Camminarono per diverso tempo, in silenzio, lungo le fogne sottostanti Seattle. L’odore, l’umidità e il rumore continuo dell’acqua rendevano Logan nervoso.

« Allora, come va tra te e Max? » domandò a bruciapelo Logan.

« Al solito… » rispose Alec senza preoccuparsi più di tanto.

« Mi fa piacere… » Disse Logan un po’ rassegnato.

Poi Alec realizzò cosa stava chiedendo Logan, « Oh beh… sai com’è Max. Ha le sue idee, pensa alle sue cose… e poi è troppo manesca per i miei gusti, non è certo il mio tipo. »

Logan non disse nulla, si limitava a guardare Alec, il quale voltandosi indietro verso di lui disse sorridendo: « … credo sia più il tuo. »

« Sì lo credevo anch’io… » disse mentre guardava dove metteva i piedi.

« Senti Logan… » Cominciò Alec, ma Logan lo interruppe subito.

« No, non fa niente sul serio… state bene insieme. Poi a lei serve qualcuno come lei e che non le muoia tra le braccia dopo il primo bacio. »

« Logan, ascoltami… » riprese Alec, ma Logan anche in questo caso lo interruppe.

« Lo so Alec, ma non ce l’ho con te, non sono così, non porto rancore. E poi le voglio abbastanza bene da capire quando è il momento di lasciarla andare. »

« Io e Max non stiamo insieme » dichiarò Alec, in modo inespressivo e deciso. Finalmente dopo due anni era riuscito a dirglielo. Ad Alec questa cosa era sempre pesata. Era amico di Logan, non subito forse ma col tempo aveva cominciato a rispettarlo e come disse a Max una volta, far finta di stare con lei per dover tenere lontano Logan lo faceva sentire più bastardo di quello che in realtà era.

Logan si fermò.

Alec si fermò quando si accorse che Logan era immobile.

« Non state insieme? »  Logan stava cercando di capirci qualcosa.

« No amico, non stiamo insieme » disse Alec con una smorfia di negazione, « Mai stati… »

Logan rimase interdetto, « Ah… » fu l’unica cosa che riuscì a pronunciare.

Alec con le braccia invitò Logan a proseguire il cammino « Continuiamo? C’è ancora un po’ di strada . »

« Certo, andiamo… » disse rimuginando su quanto aveva appena saputo. Fatti alcuni passi Logan sorrise e scosse la testa leggermente.

Poi all’improvviso sempre sorridendo « Quindi non state ins… » ma Alec lo interruppe subito: « No! No ascolta, per Max stiamo insieme, ok? Lei non lo sa che te l’ho detto e non lo deve sapere. Io non ho detto niente ok? Fattelo dire da lei se ci riesci. Per me la commedia è finita con te, ma devo continuare a farle credere che tu non lo sai. Ci tengo alla pelle amico » confessò alzando le braccia. « Quello che voglio… » e riprese a camminare « … è solo star fuori dalle vostre beghe d’amore… affari vostri… »

Poi sempre senza voltarsi «  Ah Logan, se glielo dici che te l’ho detto di ammazzo. »

Camminarono per una buona mezzora, ed arrivarono infine all’ingresso del tombino dal quale sarebbero entrati a Terminal City.

« Ecco siamo arrivati… senti Logan, salgo prima io ok? Non vorrei che ci fossero i ragazzi di Mole e ti decapitassero prima di chiederti chi sei… »

« Quindi… non state insieme… » ripeté Logan con il sorriso smagliante.

Alec fece cenno a sé stesso con la mano di lasciar perdere e cominciò a salire le scale. Uscito dal tombino, come aveva previsto c’erano due ragazzi di Mole di guardia, che come videro uscire qualcuno dalla fogna, puntarono immediatamente le loro armi.

« Ehi, ehi, calma ragazzi, sono io… con me c’è anche Logan, quindi vi sarei grato se non gli faceste saltare la testa… ok? Bene grazie. » poi guardando verso il basso fece cenno a Logan di salire, « Va bene amico, puoi salire, tutto ok nessuno ti ammazza… per ora. »

Era da quando venne istituita la Freak Nation di Terminal City, nei giorni dell’assedio di due anni prima che Logan non rimetteva piede in quel posto. Molte cose erano cambiate, c’era organizzazione, il luogo era stato ripulito nei limiti del possibile certo, ma stava diventando qualcosa di dignitoso.

« Vieni da questa parte, Max vive in quella palazzina laggiù » disse Alec indicando un palazzo fatiscente.

Logan si aggiustò gli occhiali e seguì Alec impaziente di vedere come stava Max… impaziente di rivederla. Solo adesso si rendeva conto di non aver portato con sé tutto l’occorrente per poter toccare Max se ce ne fosse stato bisogno: parecchi guanti in lattice, nastro adesivo, e tre tipi di disinfettanti, saponi sterilizzanti e camicia di nylon, “che idiota sono stato” pensò ricordando di aver già utilizzato uno dei due guanti che teneva in tasca per qualche strana evenienza.

Max era nel suo letto, sopra le lenzuola, indossava soltanto pantaloni elasticizzati neri e una canottiera azzurra. Si era appena svegliata, aveva ripreso conoscenza. In piedi, vicino alla finestra che guardava fuori c’era Joshua, in attesa di Alec e Logan. Max non sapeva che Logan sarebbe venuto. Non glielo avevano detto, sarebbe stata contraria. Era sempre contraria se c’era di mezzo Logan.

« Ehi cucciolone… » disse sussurrando.

Joshua si voltò e le sorrise dolcemente, « Ehi cucciolina… come… come stai? » si affrettò a chiedere.

« Come una alla quale hanno messo la testa dentro una campana e hanno cominciato a suonare » disse massaggiandosi le tempie.

« Eh… suonare… musica… » abbaiò soddisfatto Joshua.

« Già… » Poi si riprese, e si fece preoccupata, « E Bullet? Fixit? Come stanno? Dimmi che non avete permesso a Mole di fare una pazzia!! » e si sollevò sul letto a sedere.

« Alec… ti spiegherà tutto Alec, lui sa come sono andate le cose… lui sa tutto » si affrettò a chiudere Joshua, rimanendo sempre vicino alla finestra, ma stavolta un po’ preoccupato. Max se ne accorse, quando Joshua era preoccupato cominciava a spostarsi dal viso i lunghi capelli.

« Joshua, che mi stai nascondendo? » domandò Max socchiudendo gli occhi.

« I-io… niente, la cucciolina adesso riposa, c’è Joshua qui… niente campane… » e guardò di nuovo fuori dalla finestra. Poi li vide, Alec e Logan stavano arrivando con passo veloce.

« Oh, oh ecco! Ecco Alec… sta, sta arrivando! Ecco, contenta? Arriva Alec! Eh.. Arhg… arf! » Joshua delle volte era più cane che uomo, gli mancava soltanto la coda.

Passarono alcuni minuti da quando Joshua annunciò scodinzolando l’arrivo di Alec, a quando fece il suo ingresso nell’appartamento di Max.

Fu Joshua ad aprire la porta, Max era sempre sul letto leggermente sollevata, con la schiena appoggiata alla battuta del letto. Era impaziente, continuava battere il piede sul letto come se tenesse il ritmo di una qualche band di speed metal.

« Hei Max… » disse Alec entrando nella stanza, « Ti sei ripresa » e sorrise.

« Sì, Joshua mi ha detto cosa mi è successo » e con la sua solita espressione incredula e imbronciata « Ma come è stato possibile? Voglio dire sono mesi che non ho più una crisi. »

Alec prese le proprie mani e se le strinse quasi in preghiera “speriamo non mi uccida per quanto sto per dirle« C’è qualcuno che forse può rispondere a questa domanda… » e fece cenno a Logan di entrare.

Logan entrò nella stanza quasi fosse una specie di moschea durante la preghiera, era imbarazzato, felice e preoccupato, e tutte queste emozioni comparivano sul suo volto contemporaneamente.

« Ciao Straniera… » disse sorridendo a denti stretti.

Max fu sorpresa guardando Logan, infuriata voltando lo sguardo verso Alec il quale si apprestò a sollevare le braccia in segno di resa, e verso Joshua. Aveva l’espressione di “lo sapevo che mi nascondevi qualcosa”. Poi tornò con lo sguardo su Logan.

« Ehi, ciao… » imbarazzata, « hai lasciato il cappotto al maggiordomo? » Quando Max era imbarazzata si rifugiava nell’ironia o nel sarcasmo. Logan questo lo sapeva. E sorrise, « Ma non dovevamo vederci domani? » domandò Max.

« Oggi è domani… » disse sempre sorridendo Logan.

« Ehm, noi ce ne andiamo adesso… » s’affrettò ad annunciare Alec, « vero Josh? Andiamo amico, dobbiamo fare quella cosa ». E fece cenno a Joshua di darsi una mossa ed uscire.

« Dove credete di andare? Voi rimanete qui adesso… Alec voglio che tu rimanga. » disse soavemente Max « Ti prego… tesoro… ho bisogno che tu rimanga ».

L’imbarazzo si fece quasi insostenibile finché Logan sbrogliò la situazione parlando di quello per cui era venuto.

« Max, lo riconosci questo? » disse mostrandole l’impianto dei Rossi.

« È un impianto sudafricano… è come quello dei Rossi » disse Max

« Non è un impianto qualsiasi, questo è il tuo. »

« Che cosa? Ma com’è possibile? Pensavo che una volta innestato lo si potesse rimuovere solo da un cadavere. »

« È questo il bello Max » proseguì Logan « il tuo corpo lo ha espulso da solo. »

« Ah… ma perché proprio adesso? »

« Se posso intromettermi… » intervenne Alec « … forse ha a che fare con quanto successo ieri sera al consiglio. »

« A proposito del consiglio… voglio sapere di Bullet e Fixit, nessuno qui vuole dirmi niente ».

« Te la faccio breve allora… » e fece un bel respiro « … Mole aveva ragione su quei due », si spicciò a chiudere Alec quasi togliendosi un peso.

« Che vuoi dire Alec? » Max era seriamente preoccupata.

« Quei ragazzi non erano più quelli che abbiamo conosciuto… »

Ma fu interrotto bruscamente da Max « Alec non posso crederci… che avete fatto? » Domandò con gli occhi lucidi

« Max! C’ero anch’io te lo ricordi? Quando li salvasti… io c’ero. E ti posso assicurare che quelli che ho visto ieri non erano più loro » mai Alec fu tanto serio nella sua vita come in quel momento, e Max lo colse.

« Allora… adesso… e con calma mi spieghi, mi spiegate tutto. Sono stata chiara? »

CAPITOLO… (un po’ di tempo prima)

Quella sera White si sentiva nervoso, era la prima volta che aveva avuto problemi con il conclave. E la colpa era di suo padre Sandeman, “sempre lui, maledetto”, pensò White. Stava percorrendo un lungo corridoio del grande complesso noto come “La Via”. Era qui, tra i laboratori di queste mura, che venivano studiati i transgenici e i transumani catturati. La Famiglia voleva a tutti i costi sapere perché questi esseri fossero immuni al sangue del serpente. Il perché lo sapevano benissimo, dal momento che era opera di Sandeman. Ma se fossero riusciti a sapere come funzionava il loro sistema immunitario, forse, sicuramente sarebbero stati in grado di neutralizzarli prima dell’Avvento. Il problema con 452 però restava. Ed era proprio quello a rendere movimentati i sonni di White.

Ames White giunse davanti alla porta di un laboratorio. Utilizzando il suo badge la aprì e fece il suo ingresso in quella che sembrava un’enorme sala chirurgica. Vi erano solamente tre poltrone contenitive, due delle quali occupate da due di quei cosi, erano X6-787 e X6-809. Se ne stavano lì, coscienti, impauriti come la feccia che erano, legati e con un morso sulla bocca che impediva loro di parlare. Venivano tenuti coscienti ma del tutto inattivi tramite droghe e particolari sedativi che la setta si tramandava da millenni. Nell’enorme sala vi erano anche quattro persone, tre uomini e una donna in camici bianchi che stavano lavorando davanti a monitor e macchinari vari. Non fecero molto caso all’ingresso di White.

Ames White rimase per un po’ ad osservare questi due esseri tanto abietti e imperfetti, godendosi il loro terrore e la loro totale privazione di libertà. Poi si avvicinò ad uno di loro, X6-787.

« Tu feccia, sarai la mia arma. Tu sarai quello che toglierà l’ultima speranza al resto del genere umano… » fece una pausa. Poi avvicinò il volto all’orecchio del ragazzo e sussurrò: « Volevo che lo sapessi… se tutto finirà sarà solo colpa tua e dello schifo della tua amica. » Si risollevò guardandolo e sorridendo compiaciuto.

« Allora… dottori» disse con tono sarcastico rivolgendosi agli uomini in camice bianco, « …che cosa abbiamo di nuovo qua? »

Uno dei dottori fece cenno a White di avvicinarsi, al computer al quale stava lavorando.

« Signor White, abbiamo scoperto una cosa interessante su 452. »

« Musica per le mie orecchie, dottore… » disse con soave perfidia, « m’illumini dunque. »

« Guardi qui… », il dottore indicò il monitor, sul quale erano aperte diverse finestre alcune delle quali mostravano l’elica del DNA, valori alfanumerici e la foto di 452

« Cosa dovrei vederci? »

« Niente Signor White. Assolutamente niente. » Alle parole del dottore, White parve perplesso, « Vede, 452 è de facto un essere perfetto… inattaccabile da qualsiasi fattore esterno di carattere batteriologico o virale. »

« Questo lo sapevamo già » White cominciava a spazientirsi.

« Vede, signor White, noi non dobbiamo combatterla dall’esterno… ma dall’interno »

White parve interessato, un mezzo sorriso fece capolino sul suo volto.

« Inviate i due transgenici a Seattle. »

CAPITOLO UNO SEI

Nell’appartamento di Max un silenzio pesante era calato dopo che Alec ebbe finito di raccontare com’erano andate le cose.

Max si era strinta nelle spalle, aveva gli occhi umidi. Ripensava ai due ragazzi che salvò da White tempo prima, e che adesso lo stesso White aveva utilizzato come arma contro di lei.

« Cosa ha fatto loro, White? » domandò senza alzare lo sguardo.

« Non lo so Max…ma dobbiamo stare ancora più attenti adesso. Ha dimostrato di poter arrivare direttamente a te »,  disse Alec seriamente.

« Alec ha ragione, questo dimostra che hanno fatto dei passi avanti », continuò Logan.

« Farò avere a White un bigliettino coi miei migliori auguri e i complimenti per la riuscita dello scherzo », disse amaramente Max.

« Dove sono stati portati i corpi? » domandò Logan rivolgendosi ad Alec.

In quel momento squillò il cellulare di Logan.

« Sì, pronto? » un attimo di pausa, « Sebastian!… » Logan sembrò felice di sentirlo, la sua chiamata capitava a proposito « Dimmi tutto ti ascolto… » seguì un lungo silenzio nel quale Logan stava ascoltando quanto Sebastian aveva da dirgli. L’espressione di Logan si fece sempre più stupita.

« ..Sì… Sì ci sono ancora… è pazzesco… D’accordo Sebastian, ci sentiamo e grazie ancora.  »

Logan rimase in silenzio, lo sguardo fisso nel vuoto e il cellulare chiuso tenuto davanti alla bocca.

Nella stanza lo stavano guardando tutti aspettando che dicesse qualcosa.

« Max… » disse Logan con tono distaccato, poi si voltò verso la ragazza e serio in volto proseguì « Credo sia arrivato il momento di fare quella telefonata.  »

CAPITOLO UNO SETTE

I corpi senza vita di Bullet e Fixit furono portati nel vecchio laboratorio della Biotech, dove un tempo si studiavano nuovi ceppi batterici adesso si depositavano i morti. Quel vecchio e sudicio laboratorio era ormai diventato l’obitorio di Terminal City. I cadaveri dei due ragazzi giacevano su due tavoli affiancati, quasi un macabro letto nuziale, pensò Max guardando le lenzuola che li ricoprivano.

« Stiamo per iniziare, sarebbe meglio se tu e il tuo amico ordinario usciste di qui » s’apprestò a sentenziare Rind, un X6 specializzato in ricerca, ma non certo un chirurgo forense.

« Alec mi ha detto… » ma Max non finì la frase perché Rind la interruppe: « Quello che ha detto a te lo ha detto anche a me e lo ha detto lui, Mole, il tuo amico cane, Dix, Luke e almeno un’altra dozzina di persone che stavano partecipando al consiglio ieri sera… quindi ti sarei grato se tu potessi uscire di qui e mi lasciassi fare il mio lavoro. Grazie » detto questo Rind chiuse la porta del laboratorio.

« Non è proprio affabile come Quincy, ma se sa fare il suo lavoro… » lo giustificò Logan.

Max lo guardò quasi sovrappensiero « Come?… Cosa? Chi è Quincy? ».

« Lascia stare, ma ha ragione lui, adesso non possiamo fare niente… vieni » disse facendola accomodare in un’altra stanza, « Qui possiamo parlare tranquillamente. »

« Di cosa vuoi parlarmi? »

« Di quello che mi ha detto Sebastian al telefono, di quello che mi hai detto tu sempre al telefono e di quei numeri che ti sono comparsi sul polso. »

« A quanto pare il telefono è l’argomento principe della giornata » disse ironicamente Max.

« Se è il numero di Sandeman lo devi chiamare, Max. »

« E se non lo fosse? »

« C’è qualcun altro che avrebbe potuto fare una cosa del genere? »

Max parve riluttante, negli ultimi due anni aveva fatto di tutto per procurarsi notizie su Sandeman e adesso aveva… paura. Sì, forse è proprio paura quella che sto provando, ma non so se è paura di ciò che potrò scoprire su di Sandeman o quello che verrò a sapere su di me.

« Lo chiamerò… »

« Quando? »

Max guardò Logan, con quello sguardo che da sempre, da quando lui la conosceva, sapeva essere la valvola di sfogo.

« Lo chiamerò quando ne avrò voglia, ne avrò il tempo e soprattutto quando mi sentirò pronta per farlo. »

Logan alzò le mani in segno di resa « Ehi, ok d’accordo. » Poi riprese « Ma lo dovrai fare… Lo sai questo. »

« Sì, lo so » ne convenne Max, con lo sguardo perso nel vuoto. « Che ti ha detto Sebastian? » proseguì la ragazza.

« Già Sebastian… » disse Logan pensieroso facendo qualche passo verso la grande vetrata dell’enorme stanzone. Appoggiò le mani sul bordo della finestra e guardando fuori proseguì: « Ha eseguito degli esperimenti sul tuo DNA… »

« Che genere di esperimenti? » l’espressione di Max era incuriosita ed infastidita, si sentiva quasi violata, ma trattenne il sarcasmo per questa volta.

« Beh non certo biogenetici… diciamo qualcosa di più… new age »

« Del tipo? »

« Del tipo che grazie ad un programma musicale, Dio solo sa come sia stato realizzato, se inserito un filamento di DNA ridotto al suo codice alfanumerico, il programma è in grado di convertire le informazioni in note musicali. Normalmente i suoni che si sentono sono armonici ma privi di una vera e propria melodia… », Logan fece una pausa togliendosi gli occhiali.

« Vai avanti… » Max era incuriosita sul serio a questo punto.

« Il tuo, Max… » e si voltò verso di lei « Il tuo DNA suona Il Flauto Magico di Mozart. »

Max sbarrò gli occhi e non disse una parola.

« La cosa incredibile è che qualsiasi combinazione di DNA appartenente a te venga inserita nel programma il suono che ne risulta è sempre e solo l’opera di Mozart. »

Un ricordo.

Un flash dal passato.

Qualcosa di rimosso che improvvisamente riapparve nella mente della ragazza transgenica.

Quella notte a Manticore, doveva avere poco più di cinque anni, non riusciva a dormire, così si alzò dal letto, mentre tutti i suoi compagni erano tra le braccia dell’uomo con la sabbia, e s’incamminò per un lungo corridoio. Nessuno la vide, sapeva bene come evitare le telecamere di sorveglianza, e a quell’ora sapeva anche che molti dei militari di piantone nell’ufficio di sorveglianza, giocavano a poker.

Uscì dal blocco-dormitorio ed entrò nella palazzina dei laboratori genetici. Non sapeva cosa vi fosse in quel posto, ma ne era sempre stata incuriosita. Quello era un posto luccicante, doveva per forza essere meraviglioso. Oh sì, e lo era meraviglioso ai suoi occhi. Era diverso dai dormitori dei bambini, le finestre non avevano vetri antisfondamento, i pavimenti erano lucidi… ci si poteva persino specchiare. E si poteva vedere riflessa anche nelle pareti, la parte inferiore dei muri era tutta rivestita di acciaio ed ogni cinque passi su quelle pareti così lucide c’era quel disegno tanto particolare che l’affascinava e la spaventava. Era dappertutto, ovunque si girasse quella bestia tanto strana vi era rappresentata. Poi la vide.

Vide quella porta, quasi alla fine del corridoio del terzo piano dei laboratori.

Da quella porta filtrava della luce nel corridoio, un piccolo squarcio giallo, nel blu di quella notte senza luna.

Lentamente, camminando scalza s’avvicinò, e come un gatto curioso sbirciò.

Quello che le si presentò davanti fu qualcosa che non aveva mai visto prima, uno strano ambiente, con strani colori e del fuoco che proveniva da un buco nel muro. Sentiva il suo crepitio e udiva anche qualcosa d’altro. Vide un uomo, con un bastone poggiato accanto a lui, stava leggendo un libro seduto su una poltrona e sentì in sottofondo una musica. Fu in quel momento, quando l’attenzione si focalizzò su quella musica che sentì qualcosa dentro di sé. Fu una sensazione mai provata prima, una sensazione di benessere e di pace e in quel preciso istante si sentì a casa. Non riuscì a capacitarsi, né a dare una spiegazione a quel fatto. Lei che non aveva mai avuto una casa, nemmeno il concetto di casa era vicino a lei. Ma quella musica la rasserenò e per mezz’ora rimase lì ferma a farsi cullare da quelle note.

« Max? » Logan la riportò al presente.

« Sandeman… Lo ricordo… »

« Cosa? E come? »

« È… non lo so… ricordo quella musica… » l’espressione le si addolcì, « Un uomo con un bastone, seduto che leggeva un libro… sedeva su di una poltrona accanto ad un camino… e quella musica… »

Logan si immobilizzò.

Max voltandosi verso di lui proseguì, stranamente sorridente: « Ricordo quella musica… e… » ma non terminò la frase. La sua espressione si fece preoccupata. Guardava Logan e non riusciva a capire, « Logan che succede?… perché mi guardi in quel modo? »

« Max… » Logan continuava a fissarla, che diavolo sta succedendo? Mise le mani avanti per non farla avvicinare ulteriormente.

« Logan si può sapere che succede? » Adesso Max era seriamente preoccupata.

« La… la tua pelle Max… guardati le mani… » disse abbassando lo sguardo verso di esse.

Max si osservò le mani e non riuscì a credere ai propri occhi. Tatuaggi comparivano sulla sua pelle istantaneamente, altri scomparivano, altri davano addirittura l’illusione del movimento, la ragazza di Manticore si osservava le mani terrorizzata e d’un tratto si vide riflessa nel vetro dell’enorme finestra. Il suo volto era diventato una specie di caleidoscopio, simboli e segni comparivano e sparivano apparentemente in maniera casuale su tutto il suo volto… e probabilmente l’intero suo corpo era nelle stesse condizioni.

Max guardò Logan quasi supplicandolo con lo sguardo…

« Pensa alla tua moto! » sbottò Logan.

« Cosa?… Logan come… » era terrorizzata, ciò che le stava accadendo era qualcosa di inconcepibile.

« Pensa alla moto Max! a Kendra! A Original Cindy, pensa a tutte le volte che sei rimasta senza acqua calda quando vivevi con gli abusivi! Pensa a qualsiasi cosa che non sia quello cui stai pensando adesso! »

« Logan!… » la voce rotta dal terrore…

« Per l’amor di Dio fallo Max!! »

Max chiuse gli occhi.

I suoni si fecero ovattati, il corpo perse di consistenza, Logan era ormai lontano.

Vide una porta. Della luce tremolante filtrare da essa. Vide il bastone. Ed udì delle parole.

Quando il velo della morte ricopre la faccia della terra, la salvezza sarà portata da colei il cui potere è nascosto.

L’Avvento e il Nuovo Inizio. Coloro che nel veleno risiedono dal veleno stesso saranno annientati.

Il Serpente Composto.

Fenestol.

Le parole vennero pronunciate da un ragazzo. L’uomo poggiò la sua mano sulla testa del giovane.

La Salvezza, figli miei, è all’interno del serpente. Vivete in funzione dell’Avvento.

Tabula Rasa.

Max svenne.

CAPITOLO UNO OTTO

Ci sono volte in cui penso di non essere io quella che vedo. Ci sono volte in cui quella che vedo è una persona talmente distante da me da non appartenere nemmeno al genere umano. E ci sono volte in cui, purtroppo quella che vedo sono proprio io. Sono talmente tanto IO che un po’ mi ci sento persino in colpa. Questa è una di quelle volte.

Poi ci sono quei ricordi, che non so come né perché sembrano essere latenti. A Manticore ci insegnarono tecniche per nascondere informazioni al nemico, ad autosuggestionarci per dimenticare quello che ricordavamo. Forse, un giorno, qualcuno mi disse di dimenticare qualcosa, ed io, obbedendo come un bravo cagnolino transgenico lo feci. Ho sempre creduto che nulla andasse comunque perduto e qualcosa, nel profondo sarebbe in qualche modo rimasto, fosse stata anche solo una sensazione strana, un inspiegabile senso di disagio, ma qualcosa ero sicura avrebbe stonato nella mia testa.

Ed eccomi qui, con la mia stonatura. Distesa per terra, cosciente ma immobile. Vedo Logan che si dibatte per cercare qualcuno, grida, si agita e non mi tocca altrimenti muore. Tesoro ti verrà un infarto se perdi la testa in questo modo. La cosa peggiore è che ho gli occhi sbarrati, ma non li posso muovere. Logan non sa, che sono perfettamente cosciente. Cielo, chissà come sarò conciata adesso, con tutti quei segni su tutto il corpo. E dire che già il codice a barre mi pareva eccessivo come tatuaggio.

Tesoro, finiscila di gridare che altrimenti mi uccidi l’udito… è così agitato che tra un po’ gli saltano i bottoni dei calzoni. Ma che sto pensando? Sono distesa a terra senza possibilità alcuna di comunicare e mi metto a pensare ai calzoni calati di Logan… Max, non è che stai andando di nuovo in calore vero? No no… ne sono certa, non ho le vampate, questa è pura semplice ed umanissima astinenza.

Ecco finalmente arriva qualcuno. Non so chi sia non riesco a vedere da qui ma mi stanno sollevando. Sento che parlano concitatamente, stanno chiedendo a Logan cosa sia successo. Ma sentitelo il grande SOLO OCCHI balbettante… Dio che voglia di baciarti…

Ehy ragazzi dove mi state portando? Questo non è il corridoio di casa mia, conosco le macchie di umidità sul soffitto una per una, e qui non ne torna nemmeno mezza nel conto. Oh no… maledetti maschi, vedono una ragazza a terra e che fanno? La mettono su un lettino d’ospedale.

Non ho bevuto, non sono sbronza… non saprei che sia iperventilazione? Sono euforica. Ma perché?

E adesso che fanno? Mi voltano su di un lato? Ma perché? Oh sì ecco… Logan deve pensare che ci sia un collegamento con l’impianto neurale dei Rossi che ho espulso. Vedo la finestra del grande laboratorio. Tutto in disordine, sedie per terra tavoli spostati. C’è qualcuno in controluce, vedo una figura in di fronte alla vetrata, ma non riesco a distinguere chi sia. Le pupille non si dilatano sono immobili come tutto il resto del corpo. È un uomo… se ne sta fermo. Tutti intorno a me sembrano non curarsene.

Comincia a muoversi, fa qualche passo verso di me. Lo vedo zoppicare, ha un bastone da passeggio.

Un momento! Ma cosa… chi sto vedendo? Sono abbastanza lucida da sapere che non sto realmente vedendo nessuno, chi mi sta accanto al momento non se ne cura minimamente, quindi è solo una mia proiezione.

Sandeman?

« La mia piccola “speciale”… »

Come?

« Tu, sei la mia piccola “speciale… tutta la vita ti ho cercata ed eccoti qui adesso »

Chi sei?

« Lo sai chi sono, quello che vuoi sapere è in realtà “perché” sono qui. »

Tu non esisti sei un frutto della mia immaginazione…

« In realtà sono un messaggio nella bottiglia piccola mia. Ma non tutto il messaggio. Tu stai elaborando informazioni che ti sono state impiantate alla nascita e hai dato loro la mia forma, i tuoi ricordi rimossi, il tuo cervello sta rimettendo assieme dei pezzi. »

Grandioso, sono in pieno defrag neurale.

« Al contrario piccola mia, stai ricostruendo ciò che sai… ma non del tutto… non è stato sufficiente… coraggio… sai cosa devi fare… »

Cosa? Che cosa devo fare?

«  Fallo Max… fallo… »

No aspetta!! Maledizione se ne sta andando! ASPETTA! Non te ne andare! Parlami ancora! Voglio sapere! ASPETTA!

«  ASPETTAA!! » Gridò con quanto fiato aveva in gola Max.

Logan, Alec, ed un altro paio di serie X che Max non conosceva troppo bene, ma che sapeva essere nel reparto medico militare, si scansarono all’unisono da lei, quasi fosse esplosa una mina.

Max senza pensare si era tirata su dal lettino e aveva gridato in direzione della grande vetrata protesa tutta in avanti.

« Max?… » disse con un filo di voce Logan, quasi timoroso di avere una risposta.

Max continuava a supplicare con lo sguardo verso la finestra. Nessun segno, nessun messaggio in antico minoico compariva sul suo corpo, niente di niente.

Tutto svanito.

Tabula Rasa.

CAPITOLO UNO NOVE

La pioggia creava fitti rigagnoli lungo la grande finestra dell’appartamento di Max. Il rumore dell’acqua, delle sirene, di quando in quando un tuono, sordo ed ovattato, in lontananza, il temporale stava spostandosi da Seattle verso il confine col Canada. Il peggio era ormai passato, ma l’acqua, quella continuava incessantemente a cadere.

Logan ricordava il profumo della pioggia sul terreno. Da piccolo, nella tenuta di famiglia, quando la mattina andava a cavalcare dopo una notte di tuoni e fulmini, era il profumo della terra, l’aria frizzante… era la vita prima dell’EMP.

Ricordi lontani.

Logan sapeva bene che se avesse aperto la finestra , quei profumi non avrebbero certo allietato le sue narici, l’odore dell’acqua di Seattle era pronta per violentare i suoi sensi.

Max sedeva sul letto, le ginocchia strinte tra le braccia, la testa sulle ginocchia, lo sguardo fisso su Logan.

«Ancora non capisco, Il Flauto Magico, come può essere?»

«Conosci la storia dell’opera?» Max scosse il capo «Inizia con Tamino che fugge da un serpente» Logan pronunciò queste parole, poi rivolse lo sguardo a Max ed alzò le sopracciglia. Era palese il riferimento.

«L’opera di Mozart ha vari livelli di lettura: uno, quello più semplice, una sorta di fiaba per bambini, l’altro una storia con un chiaro sfondo illuminista, alcuni dicono anche massonico».

 Logan camminava lentamente avanti e indietro, concentrato sul tema «Nel racconto, ciò che Tamino credeva fosse il bene, si rivelerà poi essere il male, e ciò che pensava fosse il male…» si fermò e guardò Max, la quale con lo sguardo fisso in un punto non definito, dopo aver ascoltato Logan pensò ad alta voce e pronunciò una parola: «Manticore.»

Logan schioccò le dita ed eccitato «Esattamente! Sappiamo che Manticore è sì, stata un operazione occulta del governo, ma sappiamo anche che chi mise insieme il progetto fu Sandeman» poi rivolse lo sguardo altrove oltre la finestra, «Forse, lo scopo ultimo era sconfiggere il serpente».

«Manticore non era il bene» affermò con un sussurro Max, poi guardò Logan «Hai dimenticato cosa ci hanno fatto in quel posto?» domandò con tono inquisitorio.

«No Max, non l’ho dimenticato, ma la storia de Il Flauto Magico parla anche di prove iniziatiche…» Logan cercò di razionalizzare.

«Io non sono Tamino, e quello che abbiamo passato non erano prove iniziatiche, ma condizionamento psichico e torture» replicò seccamente Max.

«Dico solo…» Logan, provò a riprendere il filo del discorso, tenendo a mente i sentimenti sacrosanti di Max «…che per Sandeman forse le cose non stavano come le hai, le avete vissute. Forse per lui si trattava davvero di prove iniziatiche.»

Calò il silenzio. Un lungo silenzio.

«Chi sono io?» sussurrò Max, quasi avesse paura di ricevere una risposta.

«Sei Max…» rispose Logan, continuando ad osservare l’acqua sul vetro.

«Cosa sono… io?» un sussurro ancora più lieve.

«Sei colei il cui potere è nascosto» disse Logan pacatamente rivolgendo poi lo sguardo verso la ragazza transgenica.

Un mezzo sorriso amaro comparve per un istante sul volto di Max.

«Sono una cosa, fatta per fare un’altra cosa» disse amaramente, gli occhi le divennero lucidi ed abbassò lo sguardo. Logan avrebbe voluto far capire a Max l’importanza della sua esistenza, e avrebbe voluto spiegarle i motivi della sua importanza, ma non riuscì a trovare nemmeno una parola. Il grande Solo Occhi in quel momento non riusciva a vedere colei il cui potere è nascosto, ma solo una ragazza impaurita, disorientata e profondamente triste perché pensava di non aver mai avuto una chance come essere umano. In fondo aveva un codice a barre… già, proprio come i cartoni del latte.

«Forse…» azzardò Logan «…per quelli la fuori sei una cosa. Ma per me Max… per me…» ebbe il timore di finire la frase. Si tolse gli occhiali e si stropicciò gli occhi. Aveva così tanti pensieri che gli passavano per la testa, così tante cose da dirle, ma nessuna parola adatta per poterle comunicare. Poi lentamente, Logan si rimise gli occhiali e fu in quel momento che si accorse che la ragazza lo stava fissando. Gli occhi lucidi.

Logan si passò una mano sulla bocca, quasi si dovesse asciugare del sudore, qualche passo verso sinistra rispetto al letto. Portò le mani ai fianchi, ecco stava per dire qualcosa… no non erano ancora le parole esatte.

Abbozzò un mezzo sorriso imbarazzato massaggiandosi la fronte col pollice e il medio.

Tornò indietro, di nuovo verso la finestra, guardava nel vuoto e si mordicchiava labbro superiore, quasi stesse parlando con sé stesso. Ma ancora le parole esatte non accennarono a fare la loro comparsa.

Poi rivolse lo sguardo verso Max e fu in quel momento che notò un cambiamento nell’espressione della ragazza. Gli occhi ancora gonfi di lacrime, ma pareva divertita. Logan si rese conto di quanto la situazione lo avesse messo in ridicolo in quel momento.

«Sto…» riprovò Logan, ma stavolta con palese imbarazzo «… Sto cercando le parole per esprimerti delle cose che ho dentro…» non riuscì a pronunciare questa semplice frase senza gesticolare platealmente, «E tu non mi aiuti… fissandomi in quel modo…» continuò Logan imbarazzato.

«Mi piace osservare il paladino della giustizia Solo Occhi, mentre si arrampica sugli specchi quando parla ad una ragazza» disse Max con un abbozzo di sorriso.

« Sono così ridicolo eh…».

«Mettiamola così: alzeresti l’audience di Streaming Freedom, di molti punti se trasmettessi in queste condizioni» chiosò divertita Max.

«Già…» prosegui Logan, che parve essersi tolto un peso «Magari col sottofondo della sigla del Benny Hill Show».

Max lo guardava con la testa un po’ inclinata aggrottando leggermente la fronte.

« Lascia stare… è roba pre-EMP… molto pre».

« Ah, roba da vecchi insomma»

«Ragazzina, non osare! Non hai la minima idea di cosa sono!» disse Logan scherzosamente.

«Sei ciò che mi tiene ancorata al genere umano»

Logan, la osservò e parve stupito.

«Ogni tanto…» proseguì Max guardandosi i piedi sul letto «…rileggo la poesia che scrivesti su di me. In quei brevi istanti mi sento di nuovo viva» poi sollevò di nuovo lo sguardo verso Logan.

Fece una pausa.

«Tu sei la mia ancora, Logan», e una lacrima, timidamente, disegnò il profilo della sua guancia.

Dopo un breve attimo di aulico smarrimento, Logan le si avvicinò e con la mano destra, dolcemente, le asciugò il volto.

Logan non portava guanti.

Il virus era scomparso, ma in quel momento né a Max né a Logan la cosa parve importante.

CAPITOLO DUE ZERO

«Chi diavolo è Rachel Glasser??» s’interrogò Sketchy prendendo al volo il pacco che Normal gli aveva lanciato dal gabbiotto.

«Ehi imbecille, tu consegni pacchi, non ti pago per chiederti chi sono i nostri clienti, chiaro?»

Normal era sempre molto cordiale.

«No Normal, non consegno questo pacco a questo indirizzo» e rilanciò il pacco a Normal, il quale lo prese al volo con difficoltà, quasi lo colpiva in volto.

Normal, si rimise a posto gli occhiali dopodiché, stoicamente uscì dal gabbiotto e si avvicinò a Sketchy. Lo guardò negli occhi e con una mossa fulminea lo prese per un orecchio.

«Adesso tu, lavativo, vieni con me a fare quattro chiacchiere» s’accorse che Original Cindy stava osservando l’intera scena, in parte divertita e in parte furibonda, «Anche tu, principessa nubiana, porta il tuo culo saffico nel mio ufficio. Di corsa! Beep! Beep! Beep!»

CAPITOLO DUE UNO

«Questo è un bollettino video di Streaming Freedom. È un collegamento clandestino che durerà sessanta secondi. Non può essere localizzato né interrotto ed è la sola voce libera rimasta in città » un’ altra trasmissione pirata di Solo Occhi, ma stavolta c’era qualcosa di diverso nel messaggio, se ne accorsero i mutanti, se ne accorsero i Familiari, e alcune persone comuni da questo momento in poi cominciarono a pensare.

« Sono tra noi, sembrano persone come noi, ci salutano amichevolmente per strada se riconosciamo in loro un vicino, ci curano se abbiamo bisogno di attenzioni mediche, ci governano da anni, ma non sono come noi. No signori non mi riferisco alle creature create il laboratorio dal nostro governo, non mi riferisco a quelli di loro che ci assomigliano. No, mi riferisco ad altri. Altri che per millenni hanno portato avanti un piano. E di questo piano, il genere umano, non ne fa parte. Di questo piano il genere umano sarà la vittima. Ma abbiamo una speranza, una sola speranza, ed è racchiusa tra le persone che da due anni a questa parte cacciamo ed emarginiamo. La nostra sola e unica speranza di salvezza risiede in loro. Il nemico, il vero nemico non è palese. Pace e chiudo.»

Logan aveva pensato molto a cosa dire, doveva insinuare un dubbio sui transgenici di Manticore dirigendo il medesimo dubbio verso qualcosa d’altro. Non doveva definire troppo i contorni della vera minaccia per non creare possibili ritorsioni su persone estranee al culto del serpente. Ciò che adesso importava era infondere fiducia sui mutanti, umanizzarli e trasformarli in salvatori del genere umano. Doveva dire la verità costruendola come se fosse una menzogna. Nessuno avrebbe mai creduto alla verità.

Compito arduo… quasi impossibile. Ma da qualche parte doveva pur iniziare. L’Avvento era ormai prossimo, e nessuno aveva la minima idea di cosa fosse.

Due giorni erano passati da quando le carezzò il volto a mani nude. Ancora faceva fatica a credere che il virus di Renfro fosse scomparso. Ogni tanto Logan si scopriva a sorridere e a benedire Sandeman per quanto era stato bravo con Max. Un po’ si vergognava per quel pensiero, sicuramente non avrebbe fatto partecipe Max di questa cosa. Per lei Manticore era ancora il male, per Logan pian piano stava diventando, forse, la speranza.

Il campanello del villino suonò, Logan trasalì, i pensieri in cui era sprofondato lo avevano portato piuttosto lontano.

Dai vetri oscurati con la vernice vide un’ ombra, un maschio, pensò e anche piuttosto nervoso da quanto poteva intuire dalla silhouette. Si avvicinò con cautela prendendo la Beretta posata sul mobile accanto allo specchio. Sbirciando da un angolo di vetro pulito tirò un sospiro di sollievo era Sketchy.

Si affrettò ad aprire e a tirarlo dentro con uno strattone, Sketchy quasi perse l’equilibrio, vivendo sulla sedia a rotelle per diverso tempo le braccia di Logan avevano acquisito una discreta tonicità.

Il povero Sketchy con gli occhi chiusi si gettò in ginocchio pregando il suo “assassino”:

«Oddio, Oddio! Signore ti prego non farmi morire oggi! Non farmi morire oggi!, ti prego! ».

«Che devi fare di così importante oggi per non poter morire, Sketchy?» chiese Logan con tono divertito.

Sketchy aprì lentamente un occhio… quella voce la conosceva. Sì, decisamente la conosceva. Si stropicciò il volto cercando di mettere a fuoco, un misto di felicità, sollievo ed euforia lo pervase.

«Logan! Logan! Amico mio» gridò tuffandosi al collo di Solo Occhi, «Gesù, non immagini il sollievo!» si affrettò a dire ritraendosi e battendo le mani sulle spalle di Logan.

«Hai qualcosa per me, Sketch?» domandò Logan sempre col sorrisetto sulle labbra.

«Come? Cosa? Oh sì sì…» poi ripensandoci, «Cioè, no. Ho un pacco per Rachel Glasser» confermò guardando il pacco che aveva appena tirato fuori dallo zaino della Jam Pony.

Logan continuava a sorridere.

«Appunto» disse porgendo la mano, «Hai una penna, che ti firmo la ricevuta?»

Sketchy lo guardava dubbioso. Poi spalancò la bocca formando una grande “O” sorridente:

«Ohhh Ohohoh! Ora sì, ma certo! Ovvio! Sei tu Rachel Glasser…» disse con tono compiaciuto e sorpeso, «Molto furbo, amico, molto molto furbo» declamò aiutandosi con l’indice.

Sketchy passò la penna a Logan e facendosi più serio chiese: «E… Max?», il tono era leggermente imbarazzato, Sketchy non vedeva Max dalla fuga alla Jam Pony di due anni prima.

Logan restituì il documento firmato a Sketchy e sorridendo lo informò

«Max sta bene, so che vi pensa sempre, e so per certo che le mancate, tutti quanti».

«Ok, bene…» chiosò imbarazzato Sketchy, «Anche lei ci manca, manca a tutti quanti, penso che manchi persino a Normal» disse ridendo e grattandosi il collo.

«Di’ a Max che ci manca, e dille…» pensò bene a quali parole usare, ma non gli venne niente di meglio, «Dille che non ho dimenticato tutto quello che ha fatto per me»

Detto questo aprì la porta come un fulmine, inforcò la bicicletta e corse via.

Logan rimase un po’ sulla porta osservando Sketchy in lontananza.

Chiuse la porta e fece un passo. Fu in quel momento che sentì cedere gambe. Logan cadde violentemente a terra, cercando di aggrapparsi a qualcosa rovesciò il tavolino che si trovava accanto alla porta.

Un pensiero cupo fece breccia nella sua mente.

CAPITOLO DUE DUE

Pioveva su Seattle, e le previsioni non accennavano ad alcun miglioramento per i giorni successivi.

Max a cavallo della sua Ninja 650 aveva da tempo optato per il casco, molti ormai erano in grado di riconoscerla, ma quella sera si disse “Al diavolo la polizia settoriale e ‘fanculo White”. Logan il giorno prima le raccontò per telefono l’incontro con Sketchy, fu molto generoso in dettagli e Max si scoprì ancora in grado di ridere di gusto.

I suoi amici, Original Cindy, Sketchy ed Herbal, che da quasi tre anni ormai non vedeva più. Herbal si trasferì a Los Angeles durante la sua detenzione a Manticore per mano di Elizabeth Renfroe, non ebbe mai il piacere di salutarlo. “Questa è Babilonia, ed io sono la mano dell’Altissimo”, sorrise ancora, a quanto pare un briciolo di Herbal viveva ancora in lei.

Stava sfrecciando sulla Quindicesima Avenue diretta verso la sua vecchia abitazione ora abitata solo da Cindy… sempre che non si fosse trovata una coinquilina o una ragazza con cui convivere.

Sapeva che non sarebbe mai potuta arrivare al Settore Cinque con la moto per via dei posti di blocco della polizia, quindi era costretta a nascondere la moto nei pressi di South Market e da lì avrebbe continuato a piedi passando sotto la città. Le fogne erano piuttosto sicure, anche la polizia era restia ad entrarvi da quando molti transumani avevano cominciato ad usarli per spostarsi negli anni precedenti.

Max aveva come l’impressione che il “grande assedio” di Terminal City non fosse altro che un enorme spot elettorale perpetuo per il nuovo sindaco insediatosi dopo che Steckler venne arrestato per 149 omicidi per quella faccenda dei medicinali fasulli e di Sunrisa.

Max entrò nel suo vecchio condominio da un’apertura in quella che un tempo, prima dell’EMP era stata la lavanderia.

Fece i tre piani di scale assaporando quel momento e ripercorrendo con la memoria i due anni precedenti.

Finalmente giunse davanti alla porta del suo vecchio appartamento, si soffermò un attimo e controllò l’orologio, segnava le 2 e 13 di notte. Ma dentro l’appartamento nessuno dormiva, riuscì a distinguere perfettamente le voci di Original Cindy e Sketchy. Si sistemò il giubbotto di pelle e bussò alla porta dell’appartamento.

«Hanno bussato?» disse preoccupata Original Cindy

«Mi pare di sì» rispose Sketchy non certo più tranquillo.

«Va a vedere chi è… ma sta’ attento»

«E’ una parola… e se fosse un ladro?»

«E da quando in qua un ladro bussa alla porta, Sketchy», domandò Max in tono beffardo da fuori.

Sketchy aprì lentamente la porta, e con espressione incredula non riuscì a trattenere le lacrime.

«Max!» esclamò gettandosi su di lei quasi a volerla avvolgere.

«Ehy, Tesoro così mi soffochi» gli sussurrò abbracciandolo a sua volta.

«Non credo proprio che una superpupa transgenica e maledettamente sexy possa soffocare per una abbraccio di un amico che non la vede da due anni» rispose il ragazzo con la voce leggermente rotta cercando di essere il solito Sketchy.

«Dov’è la mia bambolina?» si fece strada Cindy, «Forza zuccone, molla l’osso adesso è il momento di Original Cindy» disse con quel tono da sbruffona.

«Nessun maschio si mette tra Original Cindy e la sua bambolina».

Max sorrise e abbracciò “fortissimamente” Cindy

«Mi sei mancata », disse la ragazza di Manticore.

«Che ci fai tu qui a quest’ora?» ripensandoci a Max parve strano che Sketchy fosse lì.

«Io vivo qui da un anno, Max» disse quasi sentendosi in colpa.

Max gettò un’occhiata stupita ed incredula verso Original Cindy, la quale a sua volta sottolineò l’evidenza

«Da non crederci vero?» poi mise un braccio attorno alle spalle del povero Sketchy che in quel momento avrebbe voluto quasi sprofondare per il senso di colpa

«Original Cindy che divide l’appartamento con un maschio» poi volgendo lo sguardo verso Sketchy «Un maschio così intendo…».

Max scoppiò in una fragorosa risata.

Questi erano i suoi amici.

Anche per loro White non avrebbe mai avuto la meglio.

CAPITOLO DUE TRE

Stava seduto sulla poltrona di fronte alla tv mentre sullo schermo scorrevano le immagini della guerra in Korea del nord, ma le notizie che arrivavano dall’Asia pareva non sortissero alcun interesse in Logan in quel momento.

Le sue gambe in quel preciso istante erano tutto il suo mondo. E quel mondo sentiva che si stava inesorabilmente sgretolando.

Di nuovo.

Max non avrebbe dovuto saperlo, non ora comunque, sapeva che se la ragazza di Manticore ne fosse venuta a conoscenza avrebbe perso lucidità e acuito il senso di protezione nei suoi confronti. Logan questo lo detestava, il sentirsi impotente, e dipendente dal punto di vista fisico da altre persone. Era troppo tempo ormai che camminava di nuovo per potersi permettere di tornare ancora sulla maledetta sedia a rotelle.

Volse lo sguardo verso l’esoscheletro, almeno con quello avrebbe camminato eretto, ma Max se ne sarebbe certamente accorta, ad ogni passo il ronzio dei servomotori avrebbe fatto capolino e ad orecchie geneticamente potenziate quel rumore non sarebbe passato certo inosservato.

Scaraventò il bicchiere di bourbon contro il muro.

Si tolse gli occhiali e prese la testa tra le mani.

«Non ancora… non ancora…»

CAPITOLO DUE QUATTRO

«Allora siamo intesi! Lavoro veloce e pulito, questa è una missione di ricerca e salvataggio da manuale, se facciamo tutto come va fatto siamo tutti a casa per cena!»

Mole un paio di giorni prima aveva avuto una soffiata da un informatore che due Serie X erano tenuti prigionieri nel Settore Tre, vicino al porto, molto probabilmente in un container. Il motivo al momento era sconosciuto, ma la soffiata era sicura al 99 per cento.

Il garage del laboratorio di chimica avanzata, o meglio, di quello che un tempo era stato il laboratorio di chimica avanzata della EXO-Chem si trovava al centro di Terminal City, fungeva da base operativa per gli sbirri di Mole. Nei piani più bassi vi erano molte stanze che un tempo erano a tenuta stagna, ma che adesso tornavano utili come sbollitori.

Sbollitori, così venivano chiamati dai ragazzi di Mole. Quando qualche testa calda alzava la cresta, piantava grane alla comunità o semplicemente non aveva un buon odore secondo Mole, finiva in una di queste stanze a sbollire.

Una cosa che a Max non piacque mai, ma messa ai voti durante il consiglio numero 4 o 5, passò a larga maggioranza.

Il commando era formato da cinque membri, compresi Mole e l’autista. Tutti molto giovani e tutti Transumani.

«Forza, muovete quel culo, salite sul VAN!»

«Dove mi siedo io, davanti o di dietro?» domandò Max giunta senza che nessuno se ne fosse reso conto.

«Ma guarda, la gatta sente odore di topi.»

«Finiscila Mole e fammi salire»

«Questa è un’operazione di polizia transgenica, non un happening da figli dei fiori in ritardo sui tempi». Mole bloccò il passaggio a Max puntandole due dita contro spalla  tenendola a distanza.

La ragazza lo fulminò con uno sguardo.

Mole biascicò il sigaro un paio di volte pensieroso.

«Dai Mole, non vorrai perderti mentre prendo a calci nel culo qualcuno che non sei tu» e sorrise inarcando i fianchi.

Mole allargò le braccia « Ok, come vuoi chiappe-tonde, trovati un posto e tieni la bocca chiusa, e ricordati che la missione è mia e che comando io, intesi?».

Max si mise sull’attenti platealmente facendo il saluto militare «Sissignore, signorsì sissignore!».

«’fanculo… Sali e falla finita»

Max regalò un sorriso a Mole e un bacio aereo, che mai si stampò sulla pelle coriacea del transumano rettiloide.

Mole seguì Max sul VAN, chiuse i portelloni e si mise a sedere proprio dietro all’autista e battendogli sul sedile gli gridò «Ok, andiamo e vedi di non farti fermare dalla Settoriale».

Il vecchio e sverniciato mezzo di trasporto partì sgommando, imboccò una vecchia entrata alla linea della metro 3 e per venti minuti percorse sballottando i passeggeri sulle vecchie rotaie arrugginite.

«Non dovremmo incontrare particolare resistenza, ma si sa come vanno queste cose quindi in campana».

Max sembrava non udire le parole di mole, se ne stava seduta, cupa in volto con lo sguardo perso oltre il finestrino oscurato del portellone posteriore.

«Ehy chiappe-tonde, sto parlando anche con te».

«Mole, piantala di chiamarmi così, è offensivo» Max non distolse lo sguardo dal finestrino e il tono era freddo e distaccato.

Il grosso uomo rettile grugnì qualcosa di incomprensibile.

Il vecchio e scalcinato VAN uscì dal tunnel della vecchia linea 3 della metro di Seattle sbandando e sferragliando immettendosi nella strada che costeggiava la baia di Elliot. La pioggia cadeva fitta sporca ed untuosa lasciando sul parabrezza viscidi aloni multi cromatici.

Ad un certo momento il VAN iniziò a rallentare «Ci siamo Mole, non è prudente procedere ancora col mezzo» disse Auberjanois, l’autista.

«Bene soldati, sapete cosa fare, fuori il culo dal furgone!» ringhiò Mole biascicando il sigaro spento, poi rivolgendosi a Max  «Mademoiselle, se vuole farci l’onore di scendere da codesto mezzo di trasporto gliene saremmo tutti molto grati» donando un plateale inchino.

«Fatti fottere Mole, il più velocemente possibile» Max scese dal furgone per ultima chiudendo le portiere e senza degnare di uno sguardo Mole.

«La gatta tira fuori gli artigli» ringhiò ancora l’uomo rettile davanti al volto di Max «E fa’ che siano affilati quando sarà necessario».

Max lo guardò seriamente scansandosi i capelli ormai fradici, dal volto “io sono a sangue caldo, cerca di non perdere colpi tu piuttosto” pensò.

Il manipolo di soldati di Manticore prese posizione ed iniziò a muoversi, in avanscoperta Trjon poi Jade, Mole, Max e Laars.

Corsero acquattati per quasi duecento metri verso i primi container. Trjon fece cenno agli altri di non vedere nulla, la via era libera per altri venti metri almeno.

Proseguirono muovendosi all’unisono cercando di non far capire al nemico quanti fossero i passi delle persone che stavano giungendo. Manticore gli aveva addestrati bene e la pioggia che batteva incessante sulle lamiere dei container li aiutava a camuffare il rumore dei passi.

Da un gruppo di container vicino all’acqua proveniva della musica. I soldati di manticore si guardarono scambiandosi ordini silenziosi per prendere posizione.

Max e Mole si mossero per primi. Attorno non si muoveva anima viva.

Dall’interno i due udirono una voce «…finito qui! Bene gente adesso passiamo ad un pezzo storico una cover di una decina di anni fa di un brano che ne ha almeno quaranta!» Era la voce di un DJ alla radio “ma chi è così cretino da tenere una radio a volume così alto in un posto dove ci dovrebbero essere delle persone tenute in ostaggio?” si chiese Max.

 «Sto parlando di I’M YOUR BOOGIE MAN di KC and the Sunshine Band! Ma solo per oggi nella meravigliosa e cyber tenebrosa versione degli White Zombie!»

Il pezzo partì e contemporaneamente Mole sfondo entrambe le ante dei portelloni del container con una pedata. C’era un tavolo, una radio e una sedia ed un computer acceso munito di videocamera. Mole vide però anche qualcosa d’altro: una porta infondo su un lato della parete est. Questo significava una sola cosa: il gruppo di container erano in realtà un unico prefabbricato, mimetizzato per sembrare altro.

Max entrò all’interno dopo Mole e confermò i suoi sospetti a Mole «E’ una maledetta trappola! Non c’è nessun fratello qui!» poi prese il braccio del grosso uomo lucertola «Dobbiamo andarcene di qui e in fretta!»

«Se qualcuno dei nostri si trova qui lo dobbiamo trovare» disse digrignando i denti Mole «O ti sei dimenticata di ciò che fanno a quelli come noi quando ce li rimandano indietro?»

«Avevo giusto bisogno di un altro paio di mostri col codice a barre..» la voce proveniva dagli altoparlanti del monitor posto sul tavolo, Mole gli stava proprio davanti e voltandosi vide in faccia il proprio interlocutore.

Quella voce…” Max la riconobbe, era Ames White.

«Immagino tu non sia venuto da solo… vero luridume? Chi c’è lì con te? A chi appartiene quell’ombra che intravedo sulla parete?» cantilenò.

Max fece da parte Mole e si piazzò in piedi di fronte al monitor col volto quasi a toccare lo schermo, Inclinò la testa da un lato, strinse gli occhi a fessura e:

«Come va Ames? Sono il tuo Uomo Nero, tesoro…» disse in tono di sfida e con un colpo distrusse la videocamera.

CAPITOLO DUE CINQUE

«Una trappola! Una dannata trappola!» Mole teneva saldamente il fucile in mano e cercava di scorgere qualche segno di nemici.

«Mole fa’ allontanare tutti da qui!»

Il grosso uomo rettile gettò un’occhiata verso Max, la sua leadership gli era stata appena soffiata.

«Ora Mole!» gli gridò Max.

In quel preciso istante il rumore della pioggia fu sovrastato da un inferno di proiettili esplosi da armi automatiche e di grosso calibro, da dentro il container i due soldati transgenici rimasero impietriti. Dal portellone filtravano balenii di luce e grida strazianti. La tempesta di fuoco parve non terminare mai, Max stava vivendo quegli attimi come in un lunghissimo ralenti cinematografico, vedeva Mole agitarsi, le gridava qualcosa ma non lo sentiva, non lo voleva sentire. Erano caduti in una trappola come gli ultimi dei dilettanti, e in quel momento il petto di Max si frantumò ed un dolore lacerante la investì per la perdita di altri fratelli.

«…andarcene da qui!… Mi stai ascoltando Max?! EHY MI STAI ASCOLTANDO?!» Mole la prese per le spalle scuotendola, ma non vi fu reazione. Fino a quando gli M16 e i calibro .50 cessarono il fuoco.

Fumo e odore di polvere da sparo si mescolarono al cadenzare della pioggia. Uno strano silenzio irreale pervase tutto quanto.

Mole, da dentro il container, intravide tra la pioggia battente, il fumo residuo e i bossoli dei proiettili, rigagnoli di sangue che si aprivano a ventaglio sull’asfalto del porto, sangue di compagni d’arme, di amici e fratelli. Volse lo sguardo verso Max, carico d’odio e acceso del sacro fuoco della vendetta.

«Max!, forza vedi di darti una mossa dobbiamo uscire di qui, dobbiamo accopparli tutti quanti, Max!»

Ma la ragazza parve non udire le parole dell’uomo rettile, lo sguardo perso nel vuoto, immobile… una statua di cera.

«Ok tesoro, se non ti svegli tu, lo faccio io per te», la colpì con un ceffone, ma non vi fu reazione.

Mole la osservò e non capiva, strinse gli occhi a fessura, digrignò i denti e la colpì di nuovo, ma con maggiore forza. Max barcollò, ma non cadde, una lacrima le rigò il viso.

Nessuna reazione.

Lo sguardo di mole si fece da rabbioso a stupito, fino a divenire seriamente preoccupato.

«Qualche problema lì dentro?…» una voce dall’esterno, il tono era cantilenante, «452, finalmente ci ritroviamo. Sei una donna difficile da incontrare…»

Mole volse lo sguardo in direzione del portellone, verso l’esterno, ma non vide nessuno, poi di nuovo su Max.

«Ehy coraggio piccola, mi senti? Forza dobbiamo andarcene da qui… Max! Dannazione mi senti?»

«Hai perso la lingua 452? Nessuna battuta sarcastica?Nessun insulto gratuito?».

Mole si voltò nuovamente verso il portellone e questa volta puntò anche il fucile a pompa,

«White? Sei White è così?»

«Mi sa che sono io il vostro uomo nero adesso…» il tono strascicato e canzonatorio di White era inconfondibile.

«Noi due ci conosciamo vero lucertola? Sai, credo che lì dentro ci sia qualcosa che voglio»

«Davvero? Allora credo che dovresti venire a prenderla»

«452, hai proprio deciso di fare la preziosa. Ok d’accordo, negozierò con la lucertola. Sai che facciamo, lucertola? Poso la mia pistola, qui fuori, vedi?» Ames White mostrò la propria mano posare lentamente a terra la pistola. Mole osservò l’intera azione senza battere ciglio.

«Adesso entro… disarmato ovviamente, e prendo X5-452, niente di personale 452 tu mi capisci, poi ti lascio libero… che ne dici? Abbiamo un accordo?»

«Sai che c’è Ames? Mi hai convinto» disse Mole biascicando il sigaro e stringendo la presa al suo fucile, «Siamo intesi, tu entri e io ti lascio la ragazza».

«Sì beh… non è per mancanza di fiducia ma… se io entro disarmato e tu mi punti un fucile addosso, mi sa un po’ di accordo a senso unico.»

 «Tranquillo, siamo tra persone civili, hai la mia parola di scout, non ti torco nemmeno un capello», disse Mole in tono sarcastico.

«Ho paura che non funzioni così, se io non porto armi in segno di tregua nemmeno tu ne dovresti avere, sai… do ut des… è latino, significa…»

«Lo so che significa, ho un QI di 160, pezzo di cretino, ma qui non sei in condizioni di trattare».

«È buffo, era proprio la cosa che volevo farti notare io. Allora Mister QI-160, ti faccio il riepilogo della situazione: attualmente siete rinchiusi in un container, che fino a prova contraria non è blindato, sotto tiro di due… no, tre calibro.50 e una dozzina di M16, senza contare le granate esplosive, le fumogene, e quelle al fosforo bianco. Ti è tutto chiaro fin qui? Parlo troppo veloce?

«Bene, c’è qualche cosa nella tua mente che ti faccia anche lontanamente pensare di poter avere anche una minima via di fuga da questa situazione? No perché io non ne vedo, o almeno non riesco a vederle, ma sarà questione di QI, suppongo.

«Concludendo, io entro disarmato, tu mi lasci entrare, disarmato a tua volta, mi prendo X5-452 e te ne torni a Monstertown a mangiare vermi coi tuoi amici pelosi e squamosi.»

«Mi sa che stalliamo signor White, perché vedi, è chiaro che tu voglia viva miss chiappe rotonde, altrimenti avresti già fatto saltare in aria il porto, ed è altrettanto chiaro come il sole che se solo vedo il tuo brutto muso entrare da quel portellone ti faccio saltare in aria la testa.

«Come vogliamo procedere signor White?»

«In realtà, che sia viva è più uno sfizio personale, sai voglio vedere com’è fatta dentro personalmente e vorrei sentirla gridare mentre la apro… ma ripensandoci è una cosa che posso fare anche col suo cadavere. Naaaa, ho cambiato idea, non mi interessa l’accordo… Fate saltare in aria il container e poi recuperate i resti di queste schifezze transgeniche… au revoir mister QI-160, addio 452».

CAPITOLO DUE SEI «»

Il tempo si è congelato, anzi, credo che sia rallentato fino a far sembrare dei mugolii infiniti le parole pronunciate da chi mi sta intorno. Mole mi guarda come se stesse parlando ad una deficiente. Credo mi abbia preso anche a ceffoni. È tutto così bizzarro, sento quasi che il mio corpo non mi appartiene.

Con la coda dell’occhio vedo un’ombra nell’angolo in fondo a destra del container, proprio dietro al tavolo, ma non ne distinguo l’aspetto. Tutto è rallentato attorno a me, quasi paralizzato, ma questa figura si muove normalmente.

Un altro senso di deja vu.

Il fumo del sigaro di Mole mi fa lacrimare gli occhi, dannato zuccone, lo sai che mi da fastidio e mi aliti pure in faccia? Appena mi riprendo te lo faccio ingoiare quel dannato mozzicone.

«Tu sai cosa fare Max»

Quella voce… sei di nuovo tu, Sandeman

«Tu sai cosa fare Max»

Ho paura che non ci siano altri messaggi, il disco si è rotto, andrà avanti così all’infinito? Ma è successo come la volta scorsa, qualcosa ha innescato questa reazione, prima fu un ricordo… ma adesso cosa?

«Tu sai cosa fare Max».

Qualcosa non quadra o qualcuno gioca a fare Dio con me. In entrambi i casi la cosa è assai irritante.

Mole stava ancora puntando il suo fucile in direzione del portellone semi aperto quando una mano, con presa decisa, lo disarmò. Max fece cenno a Mole di stare in  silenzio. Il soldato creato per la guerra nel deserto la osservò stupito, senza capire cosa fosse successo.

I due si guardarono per alcuni attimi, poi: «Ames! Diciamo che esco, tu lasci andare il mio amico senza torcergli un capello.»

«452! Quale onore, avevo cominciato a pensare che come un ratto avessi trovato la via di fuga…»

«Tu lasci andare il mio amico, e io esco», ribadì quasi meccanicamente Max.

«Affare fatto, nessuno sparerà a nessuno. Sentito signori? Abbassate le armi, c’è un accordo in corso…».

«Andiamo, Max, non puoi davvero fidarti di quel figlio di puttana», Mole non riusciva a capire cosa passava per la testa di Max.

«Andrà tutto bene, ci siamo già passati alla Jam Pony, se ti ricordi».

«Quella volta abbiamo combattuto, ed abbiamo vinto», chiosò orgogliosamente Mole.

«No Mole, quella volta abbiamo combattuto e siamo fuggiti».

Mole la osservava, cupo in volto, ma sapeva che quanto aveva appena udito da Max era la verità. Fuggirono e si auto-isolarono, credendo di aver conquistato la libertà. Ma quello fu solo il primo passo per la vera libertà.

«Io vado con White», proseguì Max « E tu torni a Terminal City e avverti Alec di quanto è successo, informa Logan che si metta in contatto con Solo-Occhi, lui ha dei contatti che possono risalire al luogo dove mi porteranno».

«La cosa non mi piace», disse Mole, volgendo lo sguardo verso l’esterno, «Non mi piace per niente».

Max prese tra le sue mani il viso di Mole e delicatamente, «Sereno, bestione» lo tranquillizzò, «Andrà tutto bene», e sorrise carezzando il volto squamoso dell’uomo rettile, «E butta quel dannato sigaro che non ne posso più!»

CAPITOLO DUE SETTE

 Il fumo si era ormai diradato, L’acqua battente stava ripulendo dal sangue il cemento del porto, e dai corpi crivellati di proiettili si alzava del vapore, calore umano, anima? Il solo rumore era quello della pioggia. Max si prese un attimo ancora per osservare i cadaveri straziati dei fratelli. Poi volse lo sguardo e lo vide. Se ne stava immobile, con le gambe leggermente divaricate, le mani conserte davanti ed impugnata ad una di esse una Beretta semi automatica. L’acqua scivolava via dal trench grigio antracite di White come i peccati lavati con l’acquasanta. L’espressione di quell’uomo, era crudele e soddisfatta. White aveva vinto. 452 era stata catturata.

Ai lati del portellone si fecero avanti due uomini in tuta d’assalto, i volti coperti da un passamontagna un elmetto ed un visore notturno alzato su quest’ultimo. Le puntavano alla testa le canne dei loro fucili automatici, puntini di luce rossa danzavano come moscerini impazziti sulla fronte di Max. Con un rapido movimento dell’arma, uno dei due uomini intimò a 452 di scendere. La ragazza lo degnò di uno sguardo veloce poi con un salto scese dal container.

«Incatenatela» ordinò pacatamente White.

Max si fece impastoiare come un cavallo nel vecchio west, polsi e caviglie.

Ci vollero un paio di minuti per concludere l’operazione e per tutto il tempo, tra uno strattone ed un lucchetto, Max non staccò gli occhi da White.

Ames White la osservava compiaciuto ciondolando leggermente la testa, questo era il momento che aveva atteso per molto tempo. Il momento  che segnò l’inizio del più grande cambiamento del mondo. Cinquemila anni di selezione genetica, preparata per l’Avvento potevano svanire in un attimo per colpa di un patchwork umano spurio. Sandeman ci era andato molto vicino, ma aveva fallito. Sì aveva proprio fallito.

Max venne incatenata, e solo a quel punto Ames White le si avvicinò. Si prese qualche secondo per osservarla, le girò intorno, lentamente, squadrandola dall’alto verso il basso, poi giunto a pochi centimetri dal volto della ragazza di Manticore: «Tu nemmeno ti rendi conto di quello che è successo in questo preciso istante».

Max lo fissava negli occhi senza battere ciglio.

White si passò la mano sinistra agli angoli della bocca, pensando a cosa dire.

Poi vide qualcosa, sul lato del collo di Max. Con una mano scansò il colletto del giubbotto di pelle che la ragazza indossava e fu allora che lo vide.

«E questo?» domandò aprendo maggiormente il giubbotto.

«Chi ti ha fatto questo tatuaggio?» volgendo lo sguardo verso gli occhi di lei.

«È stato paparino, Ames» rispose sarcasticamente Max «C’è scritto: maneggiare con cura». Un tatuaggio le era ricomparso, dopo il nuovo “black out”. Avrebbe voluto essere con Logan, avrebbe desiderato sentire le sue dita sulla pelle, sul collo, avrebbe voluto sentire la sua voce, mentre stupito, declamava qualcosa di importante.

Ames White sorrise, volse lo sguardo da un’altra parte e lasciò partire un feroce ed istintivo pugno appena sotto lo sterno di Max. La ragazza si piegò in due senza emettere un fiato.

 «Sollevatela» ordinò ai suoi uomini, «Oh scusa, non ho sentito dicevi qualcosa?»

«Cinquemila anni di selezione genetica, e sei anche sordo? Non pensavo mandassero gli scarti per catturarmi, mi farò sentire con la direzione», il fiato rotto, gli occhi di Max parevano incollati a quelli di White.

«Tu non hai la minima idea di cosa ci sia scritto vero?»

Max parve accusare il colpo.

«Fa niente, ormai è come se parlasse al passato… Oh a proposito…», disse White voltandosi verso altri due suoi uomini, «Fate saltare il container con dentro la lucertola», poi si rivolse verso Max, compiaciuto di sé stesso, ma qualcosa gli fece cambiare espressione, qualcosa nello sguardo di 452.

«È… fuggito, non è così?»

«La monomaniacalità non paga, Ames» sorrise sardonica Max, «Ti occupi troppo di me… oh non fraintendere, ne sono lusingata, ma… perdi di lucidità».

Con uno scatto fulmineo, Ames White strinse il collo della ragazza transgenica.

Gli occhi di Max continuavano a non staccarsi da quelli di White, il quale strinse maggiormente la presa. L’espressione divenne dura, gli occhi vomitavano un odio senza fine, White avvicinò il volto a quello di Max, applicando ancora maggior forza alla gola.

   «Potrei spezzarti il collo, e poi andare a mangiare del sushi in centro» sussurrò, piccoli schizzi di saliva inumidirono gli zigomi di Max.

La ragazza non emise un suono. White strinse ancora e infine lasciò la presa.

X5-452 emise alcuni colpi di tosse, e col fiato che le rimaneva, sollevò la testa.

Senza ironia, sarcasmo, battute, o espressione alcuna nella voce, Max pronunciò tre parole. Parole che mai avrebbe immaginato di dire, rivolgendosi ad un essere umano.

«Io ti ucciderò».

FINE PRIMA PARTE.

[La Seconda Parte QUI]

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